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LA S. SINDONE E LA SCIENZA MEDICA
Dott Giuseppe Toscano
© Mirnep-Docete Srl – Via Papa Giovanni XXIII, 4 – 20060 Pessano (MI)
PRESENTAZIONE
Presentiamo questo libretto sulla S. Sindone vista dalla Medicina, scritto dal P. Giuseppe Toscano, medico missionario saveriano.
Due cose ci siamo proposti: di essere in perfetto accordo con la scienza medica e di esprimerci in una forma piana, comprensibile a tutti.
Fino a pochi decenni fa, non avremmo potuto «leggere nella S. Sindone, quanto vi possiamo leggere oggi e trovarvi la conferma e la spiegazione d’ogni minimo particolare narratoci dal S. Vangelo. Siamo, quindi, dei privilegiati.
Auguriamo a tutti di approfondirsi nella conoscenza della Passione del Signore e di crescere nel suo amore. La Vergine Addolorata, Madre del Crocifisso, guidi e benedica tutti.
Mimep-Docete
LA SANTA SINDONE
Che cosa è la Santa Sindone
La S. Sindone è il lenzuolo sepolcrale ricordato dai Vangeli, nel quale, dopo la deposizione dalla croce, fu avvolto il corpo del Signore e sul quale si sono impresse le sue fattezze, con i segni della flagellazione e incoronazione di spine e delle ferite delle mani, dei piedi e del costato.

Nella parte mediana si vedono due impronte d’un corpo umano, che si contrappongono per la testa: una è l’immagine anteriore, l’altra l’immagine posteriore.
L’importanza di questa reliquia è data dal fatto che essa porta in sé i segni e le prove della sua autenticità. Molti di questi segni e di queste prove entrano nell’ambito della medicina e di qui la ragione del titolo di queste pagine.
Possiamo però dire che tutti i rami della scienza sono interessati allo studio della S. Sindone: accenno, per curiosità, ad uno di essi, la pollinologia, ossia lo studio dei pollini.
Lo scienziato Max Frei ha scoperto sulla Sindone la presenza di più di 100 varietà di pollini, il che permette – ha scritto l’illustre scienziato – “di provare che la Sindone nel suo passato ha soggiornato in Palestina, in Turchia, in Francia e in Italia”. Se ne riparlerà più avanti. Ora ci limitiamo ad osservare che i pollini non sono incollati sulle fibre e non sono coperti di colore, come accadrebbe se si trattasse di una pittura, ma sono liberi, al di sopra o fra le fibre del lino.
Il sudore di sangue
Si legge nel S. Vangelo: Allora Gesù andò con i discepoli in un luogo chiamato Getsemani e cominciò a rattristarsi (Mt 26, 36)… e il suo sudore divenne come gocce di sangue che cadevano per terra» (Lc 27, 44).
Il sudore di sangue, rarissimo, ma non impossibile, è dovuto ad una aumentata permeabilità dei capillari delle glandole sudorifere, in seguito ad un trauma eccezionalmente grave. Da milioni di queste glandole, sparse su tutto il corpo del Signore uscì sudore misto a sangue. Fino a pochi anni fa l’attenzione degli studiosi era rivolta specialmente alle impronte delle piaghe e alle colate di sangue presenti nella Sindone. Oggi si tende a dar rilievo anche all’impronta diffusa che disegna sulla superficie della Sindone l’immagine anteriore e posteriore del corpo del Signore; tutto questo perché vi si trova una connessione col sudore di sangue avvenuto nell’Orto degli Ulivi e quindi un passo avanti nel mistero di come si sia formata l’immagine della Sindone.
Infatti, il corpo del Signore dovette essere tutto ricoperto da un sottile strato di sudore e di sangue (emoglobina) che, in seguito ad esalazione, diedero origine all’impronta straordinariamente perfetta del corpo del Signore.
Parte del ferro contenuto nell’emoglobina dei globuli rossi potè rimanere inglobato nelle trame del tessuto, perché l’elaboratore elettronico ha rivelato la presenza di microtracce di ferro (uno dei componenti dell’emoglobina) su tutta l’impronta del corpo del Signore, il che sta a dimostrare la presenza di sudore di sangue su tutta la sua superficie; non solo, ma per mezzo di elaborati procedimenti di laboratorio, la presenza di sangue è stata confermata da dodici prove fra le quali quella dell’albumina, dei pigmenti biliari, delle proteine, il test emocromogeno e il test a fluorescenza.
È stato possibile anche con fibre prelevate dalle macchie più scure della Sindone, dovute a macchie di sangue, determinare il gruppo sanguigno cui apparteneva il Signore e cioè il gruppo AB, lo stesso che risultò dall’esame della Carne e del Sangue del miracolo di Lanciano.
L’impiego di ben diciotto solventi non sono riusciti a far sparire il colore della Sindone, perché l’immagine non è dovuta all’apporto di sostanze, ma è stata provocata da un viraggio di colore che non risulta più profondo di qualche micron (qualche millesimo di millimetro).
Questo viraggio si formò con l’andar degli anni (forse decenni o addirittura secoli), quando, in seguito all’invecchiamento della tela la tenue impronta lasciata dall’esalazione del sudore e del sangue si rivelò alla vista. Se dopo la Resurrezione la figura del corpo del Signore fosse stata visibile nella Sindone i Vangeli non avrebbero taciuto un fatto così importante.
La tenue esalazione potè impressionare solo la parte del lenzuolo che era verso il corpo del Signore perché il retro del lenzuolo non porta traccia di tutta la sagoma corporea ma solo le impronte di sangue delle ferite e delle colate: tale impressione è perciò estremamente delicata e potrebbe sparire col tempo se la Sindone fosse esposta per lungo tempo alla luce.
Nel retro della Sindone è stata invece scoperta la presenza di materiale da imbalsamazione a base di carbonati acidi. Il Prof. Baima Bollone, in corrispondenza delle lesioni, ha potuto reperire scagliette cornee, che formano la parte più superficiale della pelle e che, probabilmente staccatesi dal corpo dell’Uomo della Sindone, si sono depositate sui fili del lenzuolo nelle macchie di sangue. Inoltre ha dimostrato, secondo quanto ci dice il Vangelo, la presenza sulla Sindone di aloe e mirra e, ciò che è più strabiliante, tracce di terreno proprio della Palestina nelle ferite delle ginocchia.
All’altezza del ginocchio si leggono le seguenti lettere SNCTISSIE e JESU, in minuscolo del secolo decimoprimo e cioè Sanctissime jesu, scritta probabilmente eseguita da un pellegrino medioevale.
La presenza del ferro
La scoperta di ossido di ferro sulla Sindone, (scoperta che fece esultare i nemici dell’autenticità della Sindone stessa) si è dimostrata invece un’ulteriore prova della sua autenticità. Quell’ossido di ferro, infatti, era di origine biologica, purissimo, di dimensioni submicroniche, quale si trova nel sangue. Non potè quindi trattarsi di ferro faciente parte di un colorante. Ed infatti sono stati positivi per ferro biologico da sangue tutti gli esami cui fu sottoposto, fra cui elenchiamo la positività all’esame dell’emocromogeno e della cyanometaemoglobina; anche l’esame alle proteasi risultò positivo senza residui.
Nel sangue della Sindone è stato rivelato un alto contenuto di bilirubina: ciò si verifica solo quando avvengono improvvise e numerosissime rotture di globuli rossi, come dovette accadere a Gesù specialmente durante la flagellazione.
Nella S. Sindone, l’impronta è dappertutto superficialissima, ed è dovuta ad un ingiallimento o oscuramento delle fibrille più superficiali dei fili del tessuto: non vi è assolutamente traccia alcuna di colori che sarebbero penetrati in profondità né delle colle che si usavano per preparare “i fondi” delle pitture.
E non vi è neppure traccia alcuna di strinature; questo sia detto contro l’ipotesi di una strinatura ottenuta per frode con un metallo caldo.
Sotto le radiazioni ultra-violette sono fluorescenti le strinature e le macchie di sangue e specialmente l’alone più chiaro che circonda le macchie di sangue, alone dovuto al siero.
Orbene nella S. Sindone, l’impronta generale del corpo non è fluorescente (come avrebbe dovuto essere se forse stata provocata da una strinatura), mentre sono fluorescenti tutte le macchie di sangue (e fra esse notevolissime le contusioni e ferite della flagellazione) caratterizzate da un alone ancora più fluorescente, dovuto all’alone di siero formatosi intorno alle macchie.
Come avveniva la crocifissione
Fuori della città, in appositi luoghi, esistevano travi infisse nel suolo, sempre pronte, chiamate stipes. Portare la croce si riferisce al solo patibulum cioè alla trave orizzontale della croce, che il condannato portava fino al luogo di esecuzione. Il modo di portarlo dipendeva dai carnefici: generalmente veniva legato sulle spalle del condannato con corde fissate alle braccia aperte.

Normalmente le sindoni, o lenzuoli funebri, erano lunghe tre-quattro metri: il corpo, lavato sette volte, completamente rasato, cosparso di aromi e profumi e rivestito delle sue vesti, vi veniva avvolto fino al mento. Il viso rimaneva scoperto fino all’ultimo momento, quando veniva ricoperto con un sudario.
Apriamo il Vangelo
Data l’imminenza del sabato e cioè del riposo festivo che iniziava alla sera del venerdì, tempo nel quale era proibito dalla legge toccare cadaveri (Gv. 19,42), si rimandò alla domenica il compimento della lavatura della Salma del Signore e della spalmatura degli aromi. (Si ricordi che la Maddalena e le pie donne andranno al sepolcro con gli aromi, di buon mattino, il giorno dopo il sabato: cfr. Lc. 23, 56; Mc. 16, 1-2).
Gesù perciò non ricevette le cure e i riti soliti a compiersi per la sepoltura.
Strappato violentemente dalla croce (S. Elena vi troverà ancora attaccati i chiodi), fu portato al sepolcro e avvolto nel lenzuolo o sindone procurata da Giuseppe d’Arimatea. Costui, di ritorno da Pilato con l’ordine che gli fosse consegnata la Salma di Gesù, aveva comperato una sindone, molto lunga, forse di quelle usate per i ricchi. Nicodemo, invece, aveva provveduto una mistura di mirra e aloe (Gv 19, 39).

Nell’antico “Codice di leggi ebraiche” (Kitzur sulcban aracb) vien prescritto che chi fosse morto di morte violenta con spargimento di sangue:
1) Non doveva essere lavato prima della sepoltura;
2) Il sangue non poteva essere asciugato;

Così avvenne anche per il Corpo del Signore? La Sindone ci mostra di fatto l’immagine di una Salma (parte anteriore e posteriore) non lavata, non rasata, nuda e coperta anche nella testa.
Tutto parla di un rito affrettato di sepoltura, in attesa, dopo il sabato, dell’assetto definitivo della Salma e della sepoltura definitiva, come voleva la legge per i deceduti al venerdì (Gv 19, 42). Due mani pietose però – forse le mani stesse della Madre sua – devono aver ravviata amorosamente la bella chioma e la barba che incorniciano in modo ordinato il maestoso viso.
Dio nelle sue opere si prefigge sempre molteplici fini; certamente Gesù fu crocifisso il venerdì perché doveva essere il nostro agnello pasquale ma v’è anche un’altra ragione: se Gesù fosse stato ucciso in un altro giorno della settimana sarebbero stati compiuti sulla sua salma tutti i riti funebri degli ebrei: sarebbe stato lavato, pulito, rasato e vestito.
Invece, essendo morto al venerdì, per l’imminenza del sabato fu deposto nel sepolcro senza che i riti funebri alterassero sul suo corpo i segni delle sue sofferenze delle quali, nella S. Sindone, abbiamo una testimonianza così travolgente.

La “riscoperta” della Sindone
Le parti direttamente a contatto con il lenzuolo (naso, mento, mani, braccia, schiena, calcagni, etc.) lasciarono un’impronta scura; quelle non a perfetto contatto e più lontane (collo, avvaliamenti ai lati del naso, parte laterale delle guancie etc.) lasciarono un’impronta sfumata od anche nessuna impronta.
L’immagine visibile sul lenzuolo, di color carminio-malva sbiadito, è quella di un uomo raffigurato con i chiaro-scuri invertiti; e cioè il bianco al posto del nero e il nero al posto del bianco.
Praticamente si formò un negativo, scoperto solo quando la S. Sindone fu fotografata nel
1898: così il mondo intero potè ammirare le sembianze del Signore.

Nell’anno 1898 in occasione dell’ostensione della S. Sindone, il Re Umberto di Savoia la fece fotografare. Durante lo sviluppo della lastra si verificò un fatto inaspettato: la lastra mostrava un meraviglioso positivo invece del solito negativo; ciò significa che la S. Sindone presenta una figura al negativo. Il negativo fotografico era conosciuto da neppure 30 anni e cioè da quando verso il 1870 esso fu inventato per avere più copie di una sola fotografia.
Nessun argomento come questo militò in favore della S. Sindone. Chi aveva potuto tanti secoli prima della scoperta del negativo fotografico inventare un “negativo” perfetto in ogni suo particolare?
Poiché la Sindone è, come abbiamo detto, una immagine negativa dell”`Uomo della Sindone”, la lastra fotografica negativa ci dà la Sua immagine positiva.
Per orientare il lettore nella interpretazione delle varie foto della Sindone diciamo che il negativo fotografico ci dà una visione positiva dell”`Uomo della Sindone”, come se Lo avessimo di fronte a noi. In tal modo sarà facile capire quale è il Suo lato destro e quale il sinistro.
Osservazioni generali
A prima vista colpisce una doppia riga nera (e quindi bianca sul negativo) che corre quasi ininterrotta per tutta la lunghezza del lenzuolo e i numerosi triangoli simmetrici di tela più bianca. Sono i segni dell’incendio di Chambery avvenuto nella notte fra il 3 e il 4 dicembre 1532.
Le parti nere sono porzioni di tessuto carbonizzato, i triangoli bianchi sono rattoppi fatti dalle Clarisse di Chambery dopo l’incendio, per sostituire le parti di tela distrutte dal fuoco.
Fra le due righe nere e la serie dei triangoli, si intravvede l’impronta di una figura umana, nelle sue parti anteriore e posteriore.
Di queste impronte, alcune sono più vive e colpiscono maggiormente: sono macchie di sangue; altre sono appena visibili, si presentano come un tenue sfumato e si confondono con la tinta giallastra del lenzuolo.
Il braccio destro è più muscoloso del sinistro, segno di un lavoro rude fatto dall’Uomo della Sindone. Le gambe mostrano i polpacci molto sviluppati, indice che l’Uomo della Sindone aveva camminato molto. Ed, infatti, noi sappiamo che Gesù disse di non aver ove posare il capo e, per tre anni, si trasferì continuamente da un paese all’altro per predicare la “buona novella”.
I piedi non sono completamente visibili sull’impronta frontale perché non furono completamente ricoperti dalla tela: sono invece ben segnati nell’impronta dorsale. Le dita dei piedi son ben distanziate l’una dall’altra, così come si trovano in chi non ha conosciuto calzature, ma ha camminato sempre o a piedi nudi o con semplici sandali.
L’insieme rivela una anatomia perfettamente proporzionata, sebbene con qualche eccezione, come la mancanza del collo nell’impronta anteriore, il braccio destro più lungo del sinistro, la lunghezza esagerata delle gambe, dovuta ad un ripiegamento del lenzuolo, la spalla destra più bassa che non la sinistra ecc. Queste eccezioni, come vedremo quando se ne dovrà parlare di volta in volta, sono di importanza decisiva a favore dell’autenticità della Sindone.
Le impronte danno una sorprendente impressione di rilievo. Esse sono di color bistro, sfumate, senza contorni netti e si differenziano dalle macchie di colore tendenti leggermente al carminio che sono evidentemente dovute al contatto con sangue coagulato. Questi decalchi sanguigni, a differenza delle impronte del corpo, hanno limiti precisi e presentano talora un alone più pallido, dovuto al siero del coagulo.
Mentre le impronte del corpo formano un negativo fotografico, le impronte delle piaghe, essendosi formate per contatto diretto con coaguli di sangue, sono positive.
Su tutta la schiena le escoriazioni si sovrappongono alle numerose piaghe della flagellazione le quali si presentano come schiacciate e allargate rispetto alle altre come se esse fossero state sottoposte ad un peso, che schiacciandole le ha riaperte e allargate: il peso del corpo di Gesù morto disteso nel sepolcro.
Alcune contusioni poterono esser prodotte dai movimenti fatti dal Signore sulla croce per poter respirare.
Nell’impronta posteriore si noti a metà vita la grande colata che parte da destra e va verso sinistra essa è l’impronta del sangue uscito dal costato quando Gesù fu calato dalla croce e posto orizzontalmente.

Anche ad uno sguardo superficiale l’Uomo della Sindone colpisce per la sua armonica bellezza; specialmente dalle morbide linee del Volto traspare dolce serenità, mistica pace e sereno abbandono.
Ma oltre all’armoniosa bellezza del viso, ci appare un uomo di singolare perfezione: statura alta, cranio capace, faccia alquanto allungata; vasta, dritta e alta la fronte; naso forse leggermente aquilino, tipico della razza ebraica; zigomi grandi e un poco sporgenti; armoniose le linee del volto e degli arti; ben proporzionate in modo scultoreo sia la lunghezza che la larghezza del corpo.
Merita una menzione particolare il santo Volto. Nel negativo esso appare come un ritratto che riceve l’illuminazione da sinistra. Ai lati del viso appaiono i capelli lunghi e abbondanti, certamente accomodati da due mani pietose, le Mani della Madre sua. Infatti non sono in posizione naturale essendo il capo disteso, avrebbero dovuto ricadere sul piano e non lasciare così vistosa traccia di sé.
Il capo appare allo stesso livello del petto, perché ripiegato in avanti.
Probabilmente ai lati del volto doveva esservi qualche cosa che tenesse sollevata la tela, forse sacchetti di profumo, perché non si vedono le parti laterali delle guance e il volto si è riprodotto senza deformazioni, in proiezione ortogonale perfetta.
Le parti più impresse, direttamente a contatto con il lenzuolo, sono le arcate orbitarle (le sopracciglia), il naso, i baffi, la barba e la guancia destra. Più sfumate, a seconda della distanza, si presentano le cavità degli occhi, gli avvallamenti ai lati del naso, la parte laterale delle guance.
La bocca e i baffi, riprodotti fedelmente, sono leggermente spostati a sinistra, rispetto all’asse facciale, per l’imperfetta distensione del lenzuolo, formante in tale zona una piccola cavità.
La barba si presenta non eccessivamente lunga. Si distinguono assai bene sui capelli e sul viso varie macchie di sangue.
Parlando della nascita di Gesù il santo Vangelo dice: “Mentre si trovavano in quel luogo (a Betlemme) si compirono per Maria i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia.” (Lc 2, 7) Gesù fu concepito miracolosamente, nacque miracolosamente lasciando intatta la verginità della Madre sua, ma fu vero uomo.
Contro i doceti, eretici del primo secolo, i quali sostenevano che l’incarnazione del Verbo Figlio di Dio era stata solo apparente, la Sindone ci dà una prova irrefutabile della reale umanià di Cristo. Infatti, le fotografie tridimensionali fatte dal prof. Tamburelli mostrano sul ventre “un lieve avvallamento che ingrandito ha rivelato la presenza del legamento ombelicale”.
Ecco alcune misurazioni rilevate dal Prof. Iudica-Cordiglia:
Lunghezza del capo cm. 18,4
Larghezza del capo cm. 14,7
Larghezza bizigomatica cm. 12,4
Altezza della faccia cm. 17,5
Statura m. 1,81
Lunghezza dell’arto sup. cm. 60, 5
Lunghezza dell’arto inf. 84,6

Due tipi di impronte di sangue
La Sindone mostra netta e ben marcata la differenza fra sangue vivo, con rivoletti sinuosi e ben marcati, sgorgato dalle ferite mentre Gesù agonizzava sulla croce, ad esempio alla nuca, sulla fronte, ai polsi; e il sangue uscito dal corpo di Gesù dopo la morte, dai contorni imprecisi, ad esempio il sangue della ferita del costato e del piede destro, e il sangue alle reni posteriormente.
Le ferite rivelate dalla S Sindone
Nella Sindone troviamo l’impronta di tre tipi di ferite: escoriazioni, contusioni, ferite vere e proprie.
Escoriazioni. Se sono avvenute durante la vita vi è presenza di emorragia nella pelle; se avvenute dopo la morte non v’è questa presenza perché uno dei primi fenomeni dopo la morte è lo svuotamento dei capillari cutanei.
Nel caso della S. Sindone, quindi, tutte le numerosissime escoriazioni visibili sul corpo del Signore sono state provocate in vita.
Contusioni. Anche le contusioni non sono rilevabili se fatte su un cadavere, per 1a mancanza di fatti vitali, quindi le due contusioni sulle spalle dovute al trasporto del patibudum e le contusioni prodotte dai colpi di flagello, furono provocate in vita.
Ferite. Quando le ferite, cioè le soluzioni di continuità nei tessuti della pelle, sono state prodotte in vita, i margini sono rigonfi e sanguinanti e così sono le ferite dei chiodi e dei colpi di flagello. Quando invece le ferite sono state prodotte dopo la morte, sono nette, senza rigonfiamenti ai margini e sanguinano solo se venute a contatto con un grosso vaso o con una raccolta di sangue. È questo il caso della ferita provocata dal colpo di lancia al costato del Signore.
LA FLAGELLAZIONE
Una dolorosissima punizione

Nel pensiero di Pilato, la flagellazione doveva essere una punizione da infliggere a Gesù prima di lasciarlo libero: una lezione come dice il S. Vangelo (Lc 23, 16-20-22). E la Sindone ci dimostra questi due particolari, e cioè, che la flagellazione fu solo una punizione, una lezione esemplare, e che il paziente doveva essere liberato.
Infatti, i colpi furono inferti ovunque, ma non nella zona antistante al cuore: se i carnefici avessero infierito su quella zona, la più delicata, il povero condannato sarebbe morto per tamponamento cardiaco da pericardite sierosa traumatica, e in tal caso essi avrebbero dovuto risponderne personalmente a Pilato.
Comunque i carnefici non furono miti e si osservano colpi sul dorso, sui glutei, sulle gambe… sono almeno 98 i colpi che si possono con sicurezza individuare.
Il numero dei colpi, superiore a quello permesso dalla Legge Mosaica, ci dice che Gesù fu flagellato per ordine di un tribunale romano.
Presso gli Ebrei, infatti, non si potevano superare i 40 colpi (ed anche questi non potevano essere inferti se non dopo visita del medico che doveva dichiarare che il paziente era capace di sopportare la flagellazione senza morirne); presso i Romani, invece, la flagellazione non aveva limiti. Il fatto poi che fu usato, come vedremo, un flagello del tipo taxillatum, ci dice che l’Uomo della Sindone non era Romano, perché il cittadino romano non poteva essere punito con tale strumento.

Non essendovi parte del corpo risparmiata se ne deve dedurre che Gesù fu denudato prima di subire questo supplizio.
Le fotografie rafforzate fatte a Pasadena (U.S.A.) mostrano che dalle ferite prodotte dai colpi di flagello in prossimità del tetto delle spalle, partono rivoli che, raggiunte le spalle scendono sul davanti: ciò conferma che Gesù fu flagellato curvo su una colonna, ovvero che Gesù dopo la flagellazione cadde supino a terra.
L’horribile flagrum

Il flagrum taxillatum era formato da due piccole sfere munite di punte metalliche unite da un’asse metallico lungo tre centimetri e montato su due o tre corregge di cuoio; talora le sfere venivano appese a due o tre funicelle. Nella S. Sindone si contano 98 colpi di flagello. Di questi, 50 portano i segni ternari, cioè di un flagello a tre terminazioni doppie; 9 hanno appena qualche traccia del terzo segno del flagello; 18 mostrano solamente segni di due punti terminali e 21 mostrano un solo segno.

Sempre secondo alcuni Studiosi i colpi di flagello rilevabili dalla Sindone sarebbero 121.
Le ferite provocate dal flagrum erano lacerocontuse, quindi diventano fluorescenti ai raggi ultra-violetti, per la presenza di sangue. Le fotografie a fluorescenza, in modo meraviglioso ci mostrano il piccolo manubrio che univa le due palline di bronzo, spesso non visibile ad occhio nudo e, ancora più fluorescente, l’alone di siero del sangue tutt’intorno alle ferite.
Le due raggiere
I flagellatori dovettero essere due perché i colpi su ogni lato del corpo mostrano due precise raggiere convergenti in due punti focali: i due carnefici. E cioè le tracce dei colpi sono disposte oblique verso l’alto sulla parte alta della schiena, orizzontali alle reni, ed oblique verso il basso, nelle gambe.
Flagellazione e liberazione
Questa flagellazione così precisamente geometrica, conferma l’intenzione di Pilato di voler dare una lezione a Gesù prima di liberarlo. Normalmente, infatti, i condannati a morte di croce venivano flagellati mentre si recavano nudi, con le braccia legate alla trave portata dietro le spalle, al luogo del supplizio. Se Gesù fosse stato flagellato, come i suoi due compagni, durante il viaggio al Calvario, i colpi sarebbero distribuiti disordinatamente sulle varie parti del corpo. La S. Sindone invece ci rivela metodicità e quasi regolarità nella distribuzione e direzione dei colpi a raggiera, pienamente intonati al concetto di una punizione che doveva preludere alla liberazione come aveva inteso e voluto Pilato.
Ma che la flagellazione inferta a Gesù dovesse preludere alla sua liberazione, come ci dice il Vangelo (Lc 23, 16-20-22), se ne ha un’altra prova nella S. Sindone. Infatti, nella zona scapolare sinistra e soprascapolare destra, che furono a contatto con il pesante patibulum (la trave orizzontale della croce, portata dal condannato al luogo del supplizio, pesante circa 40-60 chili) si notano due larghe contusioni con i segni ben visibili del flagrum. Ciò sta ad indicare che i colpi di flagello furono inferti prima che Gesù venisse caricato del braccio orizzontale della croce.
Cos’era successo? Quando a Pilato fu rinfacciato di non essere amico di Cesare e gli fu ventilata la possibilità di essere coinvolto politicamente con un “presunto Re dei Giudei”, capitolò vergognosamente, si rimangiò tutte le proteste fatte sull’innocenza di Gesù e lasciò che lo si condannasse a morte (Gv 19, 12-16).
L’INCORONAZIONE DI SPINE
Il casco di spine
Il Vangelo si esprime al riguardo in modo lapidario e preciso: i soldati, intrecciata una corona di spine, gliela posero sul capo (Gv 19, 2).
Questo crudele episodio non era nella prassi della procedura penale romana e non è mai ricordato in nessun processo storico di condanna alla morte di croce tramandatoci dall’antichità. Furono i soldati che, avendo forse udito Gesù asserire che era re, escogitarono questa crudelissima e inumana burla.
Il tipo di corona che i nostri artisti pongono in capo a Gesù è ad anello, secondo gli schemi nostri occidentali. In Oriente questo tipo di corona posta intorno al capo non era conosciuto: si usavano mitre preziose e copricapi a cupola. I soldati, quindi, dovettero intrecciare un copricapo di spine a forma di casco e lo conficcarono a viva forza sulla testa del Signore: la sua grandezza aumentava lo scherno e il dileggio. Esso era tenuto a posto da tre, quattro o più giri di vimini, all’altezza della fronte e della nuca: una specie di cerchio di giunchi intrecciati. Questa corona è conservata a Parigi nella Santa Cappella, appositamente fatta costruire da S. Luigi IX Re di Francia. La corona di spine, perché fatta a calotta, dovette provocare ferite su tutta la superficie della testa e sulla fronte e ciò è documentato, dalla S. Sindone in modo impressionante: tutta la calotta cranica, infatti, dalla fronte all’occipite è tempestata di rivoli di sangue, e 1’imbrunimento di tutta la zona, fa pensare al sudore misto a sangue che invadeva la massa di capelli. Le impronte di ferita da punta che testimoniano il casco di spine sono 13 sulla fronte e 20 sulla regione occipitale. Queste impronte di sangue, risultano formate da sangue uscito da ferite mentre il Signore era ancora vivo, perché hanno le caratteristiche delle macchie da sangue coagulato.

Il dolore provocato dalle spine dovette essere molto intenso se si pensa che il cuoio capelluto è uno dei tessuti più ricchi di “punti dolorifici” dovuti alle terminazioni sulla cute dei nervi sensitivi del dolore: nel cuoio capelluto essi sono circa 144 per centimetro quadrato.
Le impronte sulla fronte
Dall’alto della fronte scendono quattro o cinque impronte di sangue, delle quali una a forma di 3, particolarmente impressionante. Essa inizia da una ferita al limite dei capelli e discende obliquamente a sinistra per poi riprendere la verticale. Certamente questi due diversi momenti corrispondono alla posizione del Signore, dapprima piegato verso sinistra e poi ritto.
A questo punto, però, la colata si allarga in senso orizzontale è come se avesse trovato un ostacolo, probabilmente un ramoscello spinoso aderente obliquamente alla fronte. Superato questo ostacolo in un momento in cui Gesù teneva il capo ripiegato a sinistra, la colata riprende obliquamente, per arrestarsi di nuovo e diffondersi orizzontalmente al di sopra dell’arcata sopracigliare. Davanti a questo nuovo ostacolo, il sangue potè accumularsi lentamente e coagularsi a suo agio. Con quasi certezza il nuovo ostacolo è stato dato da un giunco che passava sulla parte bassa della fronte al di sopra delle arcate sopracigliari, allo scopo di tenere in posizione la calotta di rami spinosi.
Uno dei rametti di giunco doveva essere per una certa lunghezza intimamente aderente alla cute della fronte, perché anche un coaugulo posto a destra ed uno posto a sinistra si arrestano nettamente allo stesso livello.
Nella grande colata che stiamo analizzando, però, un po’ di sangue dovette piano piano farsi strada, superando lo spessore del giunco che teneva a posto la corona di spine: infatti, si è formato un nuovo grumo a goccia, in alto sottile e poi più grosso, che raggiunge il sopra ciglio. La leggera obliquità di questo ultimo percorso ci dice che Gesù aveva di nuovo piegato la testa a sinistra.
Due lunghe colate di sangue si osservano anche su ciascuna delle folte masse di capelli che incorniciano il viso. Esse scendono, interrompendosi, fino all’altezza del mento. Quella di destra scende doppia da una profonda ferita un rivolo si ferma alla stessa altezza alla quale si fermò il rivolo a forma di 3 che abbiamo appena esaminato; l’altro, alla stessa altezza, non ha lasciato traccia di sé sulla Sindone; segno evidente che in quei punti passavano i giunchi che tenevano a posto il casco di spine.
A proposito delle colate che abbiamo esaminato si possono fare osservazioni preziose.
Anzitutto la colata a forma di 3, è di sangue venoso. Il sangue è abbondante ma non è uscito spinto da una forza a tergo: con ogni probabilità era stata lesa la vena frontale.
Le cose stanno all’opposto per le due colate che scendono lungo le due chiome fino all’altezza della barba si tratta di sangue arterioso che fuoriesce spinto dalla pulsazione arteriosa e che arriva su ambedue le chiome fino all’altezza della barba.
Chi poteva, nel Medio Evo o dopo, conoscere queste nozioni sul sangue venoso e arterioso, quando si pensa che la circolazione del sangue fu scoperta nel 1593 da Andrea Cesalpino, la cui opera portò in seguito alla identificazione di due tipi di sangue, venoso e arterioso, con relative diverse modalità di coagulazione, e agli esperimenti dell’Harvey nel 1628?
Le impronte sulla nuca

Nonostante che tutti i capelli ci si mostrino intrisi di sangue, sono chiaramente distinguibili le ferite. Quattro di queste hanno prodotto due colature in direzioni diverse, a seconda che il capo di Gesù era piegato a destra o a sinistra, quattro colature sono decisamente in direzione destra e almeno sette decisamente in direzione sinistra.
LA VIA DOLOROSA
Il patibulum
il santo Vangelo ci dice che dopo la flagellazione e l’incoronazione di spine, Gesù indossò
di nuovo le sue vesti (Mt. 27, 31). Pilato sperava ancora di salvarlo.

Dopo la condanna, però, Gesù non fu spogliato delle sue vesti e andò al Calvario vestito. Probabilmente si capì che Gesù era all’estremo delle sue forze e che se, togliendogli le vesti di dosso, si fossero riaperte le ferite, Gesù non avrebbe potuto vivere fino al Calvario. Il fatto è che Gesù andò al Calvario vestito, e il Vangelo lo fa notare, proprio perché la cosa era contraria all’uso vigente: i condannati alla croce venivano condotti al luogo del supplizio completamente nudi e flagellati durante il percorso.
La notizia dell’Evangelista ha una conferma nella Santa Sindone. Se Gesù avesse portato la trave sulle spalle scoperte, già lese dai flagelli, essa avrebbe slabbrate ed estese le lacerazioni già esistenti (quelle della flagellazione) fino a formare un’unica grande piaga: le spalle, invece, pur mostrandosi, escoriate e contuse, lasciano anche vedere le lesioni provocate dai flagelli. Tutto ciò potè avvenire perché le spalle erano protette dalla veste.
La tavola appesa al collo
Altro motivo di grave sofferenza per il Signore dovette essere il “titolo” che portava appeso al collo. Il “titolo” era una tavoletta su cui era scritto il nome del condannato e talora anche il suo misfatto. Dal Vangelo sappiamo che nel “titolo” portato da Gesù vi era il suo nome: “Gesù di Nazareth”, e il motivo per cui era stato condannato: “Re dei Giudei”; ed anche sappiamo che la scritta era ripetuta in tre lingue: ebraica, greca e latina.
Doveva quindi essere una tavola di almeno cm. 80×30. Ciò che dava disturbo non era soltanto il suo peso ma specialmente il fatto che, ballonzolando sul davanti, faceva perdere l’equilibrio già così instabile del Signore; inoltre impediva la vista per cui Gesù non vedeva ove metteva i piedi, ed anche peggiorava la situazione delle cadute, perché quando il Signore cadeva, il “titolo” appeso al collo poteva essere in una posizione tale da provocare gravi dolori e disagio al Signore. La corda poi, cui era appesa la tavola, gli girava intorno al collo e dovette procurargli un dolore, come dire, di segamento al collo. Fu tale tavola, divenuta un terribile strumento di tortura a lasciare traccia di sé sul volto di Gesù nella Sindone? Il Prof. Marastoni, infatti, servendosi di ingrandimenti fotografici e di fotografie tridimensionali, scoprì la presenza di varie lettere sul volto del Signore, sia in alfabeto ebraico sia in caratteri dell’alfabeto latino lapidario. In modo particolare sulla guancia destra sono ben leggibili le lettere S NAZARE. La mente non può non pensare alle parole Jesus Nazarenus che sappiamo essere state scritte in tre lingue sul titolo. È possibile quindi che Gesù, cadendo, abbia sbattuto il volto sulla tavola del titolo e che le lettere, che dovevano essere ancora fresche perché scritte da poco tempo, abbiamo lasciato sul suo volto la loro impronta. Sembra anche che il Signore abbia portato al collo una tavoletta molto più piccola della precedente con le sole parole IN NECE (M) e cioè (condannato) “a morte”. Infatti parti di tale scritta si leggono tre volte sul volto della S. Sindone, in caratteri onciali (cioè dell’altezza di cm. 2,5), come erano in uso nel primo secolo.
Il triste corteo
Quando i condannati erano più di uno, venivano legati fra di loro. Anzitutto venivano legate fra di loro le estremità destre di tutti i patiboli. Ogni condannato poi oltre ad avere l’estremità sinistra del suo patibolo legata al proprio piede sinistro, l’aveva anche legata al piede destro del condannato che precedeva.
Avendo le fotografie rafforzate del Dott. Lynn di Pasadena (U.S.A.), mostrato che soltanto la gamba sinistra del Signore ha le lividure della corda intorno al piede, se ne può inferire che Gesù era al terzo posto nel gruppo. Infatti se fosse stato al primo o al secondo posto presenterebbe i segni delle lividure della corda anche nella gamba destra. Ciò, come vedremo, costituirà per Lui una nuova fonte di disagi.
Le impronte del patibolo
L’impronta obliqua lasciata dal pcatibulum o legno trasverso della croce, parte dall’alto della spalla destra e arriva fin sotto la scapola sinistra. Ciò perché tale legno non era soltanto legato alle braccia del condannato ma anche al suo piede sinistro: il camminare quindi imprimeva alle trave un movimento verso il basso per cui essa gravava maggiormente sulla spalla sinistra ed infatti questa spalla ci appare nella Sindone più tormentata che non la destra.
L’impronta sulla spalla destra
Sulla spalla destra, nella parte esterna della regione soprascapolare, vi è una larga zona
escoriata, obliqua in basso e in dentro, avente la forma di un rettangolo di cm. 10×9 circa. Le escoriazioni hanno varia grandezza; talune riproducono meno chiaramente, perché più larghe e sfumate, i colpi della flagellazione. Ciò sta ad indicare che su di esse in un secondo tempo ha gravato un corpo ruvido, non fisso ma in movimento, così da spianare e deformare escoriazioni preesistenti e formarne di nuove.

Questa zona si prolunga in avanti ed è visibile nella parte anteriore della Sindone, nella regione clavicolare destra.
Confrontando le due spalle si nota che la spalla destra è notevolmente abbassata rispetto alla sinistra. Il fatto è stato provocato dal colpo di lancia di Longino, che avendo aperta la cavità pleurica, ha fatto afflosciare il polmone destro e conseguentemente abbassare la spalla destra.
L’impronta sulla spalla sinistra
A sinistra, più in basso, ed esattamente sulla punta della scapola e nella regione sottoscapolare è ben visibile un’altra zona escoriata, che presenta i medesimi caratteri essa è di forma tondeggiante con un diametro di cm. 14.
Sono le tracce del trasporto del patibulum, cioè del braccio trasverso della croce, dal Pretorio al Calvario. Quando Gesù cadeva, la trave che doveva pesare circa cinquanta chili, scivolava o sulle spalle o obliquamente sulla schiena producendo le vaste zone di escoriazioni presentateci dalla Sindone.
Le cadute
La tradizione ci ha tramandato la notizia di tre cadute di Gesù sotto il peso del patibulum. Di fatto dovettero essere molto più numerose.
Gesù aveva il suo patibolo legato alla estremità destra con quelli dei suoi compagni e all’estremità sinistra con il suo piede sinistro ed anche con il piede destro del compagno che lo precedeva. Ad ogni colpo di flagello dato – secondo il costume – ai due ladroni, costoro, che erano in piene forze, dovevano dimenarsi, agitarsi, trascinarsi a vicenda e spingersi l’un l’altro; le funi che legavano fra loro i tre condannati erano molto corte, quindi chi ne andava di mezzo era il Terzo Condannato, il quale, avendo già subito la flagellazione, procedeva a fatica sotto il peso del suo patibulum e veniva costretto a terra: il piede sinistro legato all’estremità del patibolo si piegava e andava ad urtare violentemente contro le lastre di pietra della via come fan fede le grosse contusioni del ginocchio sinistro; il pesante patibolo, prima della caduta sostenuto obliquo sulla spalla destra, colpiva con tutto il suo peso la zona sottoscapolare sinistra, già a sua volta ripetutamente martoriata dai colpi di flagello, e Gesù, cadeva pesantemente a terra non solo a peso morto, perché non poteva difendersi mettendo avanti le mani legate al patibolo, ma specialmente perché schiacciato sotto il peso dei cinquanta chili del patibolo che aveva sulle spalle.
E una volta a terra, Gesù, impossibilitato ad alzarsi perché privato dell’uso delle braccia e delle mani, veniva trascinato dai due ladroni e fatto oggetto di nuovi scherni e di nuovi maltrattamenti finché non fosse aiutato a risollevarsi; poi tutto il triste corteo riprendeva la via fino a quando, incontratosi con Simone di Cirene, il pesante patibolo di Gesù venne a lui affidato.
La S. Sindone ci dà una documentazione impressionante delle cadute di Gesù, specialmente nelle lesioni del volto e delle ginocchia.
Il Santo Volto
Quando Gesù cadeva a terra, non aveva alcuna possibilità di difendersi col mettere avanti le
mani, perché legate sotto il patibolo.

Unico modo di difendersi, quando la caduta non era repentina e quando il “titolo” appeso al collo non glielo impediva, era quello di presentare al selciato della strada le guance.
In modo particolare ne soffrivano le parti della faccia che avevano ossa sottostanti alla pelle, come le tempie e gli zigomi.
E proprio in queste parti la Sindone rivela tumefazioni, dovute ai traumi delle cadute.
Quando però Gesù non faceva in tempo a piegar la testa e ad offrire alla terra una delle sue guance, allora sbatteva a terra violentemente il viso e le parti che ne dovettero soffrire maggiormente furono la fronte e il naso.
E difatti la S. Sindone mostra al centro della fronte una vasta escoriazione. In corrispondenza poi del sopracciglio destro, ad un centimetro e mezzo dalla radice del naso, è ben visibile un taglio lungo sei centimetri, dovuto ad un trauma (caduta a terra? bastonata?) che ha compresso la cute contro la cresta ossea dell’arcata sopracciliare. Anche sul sopracciglio sinistro è visibile una vasta zona contuso-escoriata di due centimetri e mezzo.
Escoriazioni si osservano sulla guancia sinistra, sull’apice del naso, sul labbro inferiore.
Anche nella regione del mento, in corrispondenza al solco naso-labiale sinistro, si nota, nonostante la presenza della barba abbondantemente intrisa di sangue, un notevole gonfiore della parte, e gonfiori se ne osservano un po’ ovunque specialmente nella guancia destra.
Il distacco della cartilagine nasale
Fu forse a causa di una di queste cadute fulminee nella quale Gesù non fece in tempo a piegare la testa che battendo violentemente il viso al suolo sotto il peso dei cinquanta chili del patibolo, gli si ruppe la cartilagine nasale. Due particolarità tipiche stanno a dimostrarlo: la tumefazione che la Sindone presenta alla metà superiore del naso e le intentazioni che sono presenti nel punto del distacco della cartilagine nasale e cioè subito al di sotto della tumefazione della metà superiore del naso. In seguito a questa frattura uscì abbondante sangue dalle narici, come testimonia la fotografia tridimensionale del prof. Tamburelli: un rivolo di sangue dalle narici è gocciolato sui baffi fino a formare, in seguito, un grumo sul labbro superiore.
Le lesioni alle ginocchia
Si è provato a porre sulle spalle di un giovane una trave di cinquanta chili: al più piccolo
urto, dato che il baricentro veniva a trovarsi molto alto, il giovane cadeva a terra e sempre sul ginocchio sinistro, forse perché la gamba sinistra era legata all’estremità sinistra della trave.

La S. Sindone ci mostra il ginocchio sinistro particolarmente contuso, con numerose escoriazioni di forma e grandezza diverse, a bordi frastagliati, nella regione rotulea. Un po’ al di sopra e in fuori, ci sono due piaghe rotonde di due centimetri di diametro. Inoltre le fotografie rafforzate di Pasadena (U.S.A.) hanno rivelato tre lividure a cerchio intorno al terzo inferiore della gamba sinistra, lividure dovute a tre giri della corda che univa il piede sinistro di Gesù al suo patibolo e alla gamba destra o al patibolo del condannato che seguiva. Il ginocchio destro mostra diverse piaghe contuse, ma meno evidenti e meno numerose.
Nella zona delle ginocchia, dei piedi e del naso, il Prof. S.F. Pellicori, del Santa Barbara Research Center, ha scoperto, misti al sangue, frammenti di sostanza terrosa.
La finta compassione
Ci dice il Vangelo “Mentre lo conducevano via, presero un certo Simone di Cirene e gli misero addosso la croce da portare dietro a Gesù” (Lc 23, 26).
Bisogna dire che ad un certo momento le condizioni di Gesù si fecero così allarmanti che si giudicò non avrebbe più potuto continuare e giungere vivo al Calvario. E se Gesù fosse morto, il Sinedrio non avrebbe potuto dare il tanto bramato spettacolo di mostrarlo a tutti crocifisso. Di qui la finta compassione dei Giudei che obbligarono Simone Cireneo a portare il patibulum, per alleggerirne Gesù ed evitare che egli morisse.
Tutto ciò fu di enorme sollievo a Gesù non solo pel peso di cui fu liberato ma per la libertà di movimenti che acquisiva.
Fu forse la sua SS. Madre ad aiutarlo a proseguire? L’arte ci mostra spesso Maria nell’atto di aiutare Gesù a salire al Calvario.
Quello che è certo è che la tradizione ci mostra Gesù talmente sfinito che continua a cadere, e questa tradizione, mentre ha fissato nella Via Crucis una sola caduta di Gesù prima che fosse alleggerito del peso del patibolo, ne commemora due dopo che ne era stato liberato, segno questo che Gesù continuò a cadere per lo sfinimento terribile cui era giunto.

LA CROCIFISSIONE
L’antichità non ha riprodotto per tre secoli la scena della crocifissione perché, conoscendo la tragica realtà di questo atroce supplizio, che Cicerone definì “crudelissimum teterrimumque”, il cuore umano rifuggiva dal rappresentarlo; quando questa pena andò in disuso la si rappresentò ma in modo ben lontano dalla realtà.
Già abbiamo accennato come avveniva. Arrivati sul luogo del supplizio, ove lo stipes o tronco verticale della croce era già stato infisso al suolo, a Gesù steso a terra sul patibulum, vennero inchiodate le mani che formavano con il corpo un angolo di 90 gradi; indi il patibulum fu sollevato e posto sullo stipes. Ciò avveniva facilmente perché lo stipes non era alto più di due metri e la parte alta era adattata ad entrare nell’incastro già preparato nel patibulum.
Innestato il patibulum sullo stipes, il corpo di Gesù pendette penzoloni, accasciatosi per il peso, mentre l’angolo del suo corpo con le braccia si portò da 90 gradi a 65 gradi. Era questo uno dei momenti più tragici, perché, portatesi le braccia verso la verticale, il crocifisso non poteva più espirare e provava subito un terribile senso di soffocamento. In tale posizione Gesù sarebbe morto in pochi minuti per asfissia se i carnefici non avessero subito sollevato il suo corpo per riportare le braccia verso l’orizzontale, e non avessero flesse le sue ginocchia e inchiodati i piedi. In tal modo, Gesù puntando su di essi potè mantenersi più sollevato ed espirare.
I chiodi ai polsi
Secondo la S. Sindone i chiodi delle mani furono conficcati nei polsi: se fossero stati
conficcati nelle palme, il peso del corpo avrebbe lacerato la mano e il condannato non avrebbe potuto essere sostenuto. Nel polso, invece, che è formato da vari ossicini, il chiodo può penetrare facilmente e non v’è pericolo di laceramento. Ed infatti nella mano sinistra che è incrociata sulla destra all’altezza del polso, il segno della ferita del chiodo è a 8 cm. dalla testa del III osso metacarpico (dito medio), e cioè nel carpo, sulla linea di flessione del polso. Il carpo è formato da otto ossicini: fra quattro di questi ossicini (il capitato, l’uncinato, il piramidale e il semilunare) v’è lo spazio del Destot. In questo piccolo spazio, data la convessità di questi ossicini è facile piantare un chiodo, anche di 9 mm. di diametro. I carnefici conoscevano bene questo punto, che permette la sospensione di un grosso peso senza che la mano si laceri, per la presenza anche del robusto legamento trasverso del carpo.


Sembra che la lesione di un grosso nervo, com’è il nervo mediano, sia il dolore più grande che un uomo possa sopportare. Probabilmente poi, il nervo non fu dal chiodo tagliato in due, ma solo in parte, per cui il dolore, essendo il nervo sempre a contatto con il ferro del chiodo, dovette persistere. Ogni movimento di Gesù, ogni scossa del suo corpo dovette rinnovare quel tremendo dolore veramente superiore alle forze umane.
Passando in quel punto il chiodo lede anche il nervo tenar che è sensitivo e motorio e provoca la contrazione dei muscoli tenar e la successiva opposizione intrapalmare del pollice, causando spasimo atroce. Ed infatti la S. Sindone ci presenta quattro dita delle mani, senza i pollici che sono in opposizione sotto il palmo.
La piaga della mano sinistra
La Santa Sindone ci presenta le mani incrociate sul basso ventre: la destra raggiunge il margine esterno della radice della coscia sinistra. La sinistra passa al di sopra del polso destro nascondendolo completamente e supera la linea mediana molto meno della mano destra.

Notare la fedeltà delle impronte e l’alone prodotto dal siero. Due colate raggiungono subito il margine ulnare dell’avambraccio. La più grossa scende obliquamente verso il basso e indietro prima di raggiungere il margine ulnare.
La terza colata, più sottile e frastagliata, sale fino al gomito; probabilmente essa ha seguito un solco tra due gruppi di muscoli estensori, ma di tratto in tratto sfugge verso il margine ulnare, secondo la legge della gravità.
Queste diverse direzioni hanno una spiegazione plausibile. Gesù fu inchiodato sul patibulum per terra, ma quando questo fu posto sullo stipes, il peso del corpo portò le braccia dalla posizione quasi orizzontale ad una posizione più verso la verticale: per ciò il sangue colò verso i gomiti. Quando, però, Gesù sulla croce, per poter respirare, dava alle braccia la posizione più orizzontale possibile, drizzandosi e prendendo come punto d’appoggio il chiodo dei piedi, allora dalla colata che andava verso il gomito partivano tante piccole colate verso il margine ulnare.
La piaga della mano sinistra ci ha lasciato di sé una documentazione di autenticità sconvolgente. La grande macchia della ferita del polso sinistro, è stata fotografata anche sul retro della Sindone. In mezzo a tale grande macchia, la fotografia ha rivelato una forma più scura dai margini ben delineati aventte: un quadrato di circa un centimetro di lato. É questa la forma della ferita prodotta dal chiodo, impressa così nettamente perché, dopo l’estrazione del chiodo, i lembi della ferita erano rimasti aperti e il coagulo che vi si era formato dentro è stato abbondantemente assorbito dal lino.
L’impronta della mano destra
La mano destra appare più tormentata della sinistra e le sue dita mostrano escoriazioni vaste e ben marcate dovute allo sfregamento sulle asperità del legno della croce. Le dita poi sono in forzata estensione: con ogni probabilità il chiodo, penetrando nel carpo, lesionò o recise i rami del nervo mediano che raggiungono i muscoli flessori superficiali e profondi delle dita, per cui non funzionando più questi muscoli, antagonisti dei muscoli estensori, le dita sono rimaste nel particolare atteggiamento di ipertensione.
Il braccio destro appare più lungo del braccio sinistro: a ciò può aver contribuito la lussazione dell’articolazione omero-scapolare provocata dal violento stiramento dell’arto per far arrivare la mano al foro del chiodo preparato in precedenza, ma la causa principale fu 1’afflosciamento del polmone verificatosi dopo il colpo di lancia che aprì la cavità pleurica.
L’impronta anteriore dei piedi Questa impronta manca completamente perché la tela forse non arrivò a coprire i piedi, oppure perché non potè formarsi per la presenza di fiori o di altri oggetti, aromi, unguenti, ecc.
Vi sono soltanto macchie irregolari di sangue all’altezza del collo del piede destro.
L’impronta posteriore dei piedi
Osservando l’impronta posteriore della Sindone è facile rilevare che la gamba sinistra è leggermente flessa in avanti e in dentro, sicché i piedi sono leggermente incrociati: ciò perché il piede sinistro era sulla croce sovrapposto al destro essendo stati i due piedi crocifissi con un sol chiodo. Sopraggiunta la rigidità cadaverica la gamba sinistra mantenne la sua posizione in flessione anche nel sepolcro. Mentre il piede destro ha lasciato un’impronta completa (e cioè calcagno, pianta e le cinque dita, specialmente l’alluce), del piede sinistro si vede solo il calcagno e la parte di mezzo, non avendo potuto il sangue colare fino alle dita perché impedito dal sottostante piede destro. La flessione in avanti e in dentro della gamba sinistra, con grande evidenza confermata dalla fotografia tridimensionale, mostrando apparentemente la gamba sinistra più corta che non la destra, ha dato luogo ad una interpretazione di notevole importanza storica per la Sindone. Prima che la Sindone comparisse in Francia nel 1205 era stata conservata nella Cappella imperiale delle Blacherne a Costantinopoli ove veniva esposta ogni venerdì alla venerazione del pubblico. Vedendosi chiaramente che la gamba sinistra era più corta, nacque la credenza che Cristo fosse zoppo e si suffragava tale tesi con le parole di Isaia che inizia la descrizione della passione e morte del Signore con le parole “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto. Disprezzato e reietto dagli uomini, uomo dei dolori” (Is. 53, 2-3).
Questa credenza indusse gli artisti a porre sotto i piedi del Crocifisso un suppedaneo obliquo. Tale suppedaneo fu posto anche nelle semplici croci che in tal modo in tutto l’Oriente, da Costantinopoli alla Russia, da mille anni continuano a presentare il suppedaneo traverso.
L’impronta plantare destra
L’impronta del piede destro mostra, disposti in meandri capricciosi, i coaguli delle colate di
sangue. Nella parte di mezzo si nota una chiazza rettangolare, da cui sembra si dipartano le colate: alcune scendono verso le dita in meandri capricciosi di sangue vivo e avvennero mentre Gesù era in croce; altre, più sfumate, di sangue misto a siero, vanno verso il calcagno (oltrepassando anche l’impronta del piede) e dovettero verificarsi dopo la deposizione di Gesù dalla croce e cioè dopo che fu tolto il piede dal chiodo. La chiazza quadrata corrisponde al chiodo della crocifissione essa si trova all’altezza della parte posteriore del secondo spazio intermetatarsale, e cioè fra il II e il III osso metatarsale e perciò immediatamente davanti alla linea del Lisfrang, linea che separa il tarso dal metatarso. Anch’essa è di mm. 9 di lato, come il chiodo conservato a Roma nella Chiesa di “S. Croce in Gerusalemme” e donato da S. Elena, Madre dell’imperatore Costantino. Non essendovi, in questo punto, passaggio di vene e arterie non v’era il pericolo di emorragie mortali.

La fotografia fatta sul rovescio della Sindone all’altezza del piede destro, ha rivelato una ferita ovale con le punte in alto e in basso: la ferita prodotta dal chiodo quadrato si era allungata per il peso di tutto il corpo sostenuto in quel punto.
L’impronta plantare sinistra
È visibile solo il calcagno, con colature di sangue cadaverico.
La crocifissione dei piedi era facilmente fattibile perché ponendo un chiodo sulla linea del Lisfrang, fra il tarso e il metatarso, bastava anche un solo colpo di martello per far attraversare dal chiodo tutto il piede.
La tavola del titolo
Il Vangelo ci informa che la scritta “Gesù Nazareno Re dei Giudei” fu posta al di sopra della testa (Mt. 28, 37). Anche di questo fatto, che avveniva piuttosto raramente, troviamo conferma nella S. Sindone.
Abitualmente la tavoletta col nome del condannato e, più raramente, col motivo della condanna, veniva inchiodata insieme ai piedi che venivano inchiodati separatamente con due chiodi.
La S. Sindone ci rivela che i due piedi furono inchiodati sovrapposti, il sinistro sul destro ciò perché, come ci dice il Vangelo, la tavola del titolo fu posta al di sopra della croce. Riportando essa non solo il nome del Condannato ma anche la causa della condanna (Re dei Giudei), e in tre diverse lingue, ebraica greca e latina (Gv. 19, 20) le sue dimensioni (circa cm. 30×80) erano tali per cui fu necessario porla al di sopra della croce: i piedi quindi poterono essere inchiodati con un solo chiodo, secondo l’usanza vigente, come ci rivela la S. Sindone. L’Evangelista Giovanni fa notare che “molti Giudei lessero questa scritta” (Gv. 19, 20).
L’AGONIA IN CROCE

Le braccia fissate in alto portavano ad una relativa immobilità del torace e quindi ad una grande fatica nella respirazione. Infatti, era facile compiere l’inspirazione per l’allargamento delle braccia, ma non si poteva compiere l’espirazione. Ciò portava ad un accumulo di acido carbonico nel sangue, e ad un aumento dell’acidità. L’acidità abbassa la soglia di eccitazione delle fibre muscolari per cui più facilmente i muscoli vanno in “fatica” e si ha la tetania e i conseguenti crampi.
L’acidità (e di conseguenza la “fatica” e la tetania) veniva aumentata anche per un altro fattore: la diminuita funzionalità respiratoria comportava un sovraccarico di lavoro al cuore; il cuore rispondeva aumentando il numero dei battiti che si affievolivano sempre più; ne seguiva un ristagno di sangue in tutto il corpo e l’acido carbonico si accumulava maggiormente. Il povero condannato non aveva che una risorsa: puntare sui piedi, sollevare alquanto il corpo afflosciato e portare le braccia, o almeno un braccio, in posizione orizzontale. Alleggerita così la trazione delle braccia, il torace riprendeva a respirare, l’asfissia diminuiva e il condannato sopravviveva.
Per permettere tale sollevamento del corpo i carnefici usavano inchiodare i piedi in modo che le gambe fossero in grande flessione: in tal modo il condannato poteva sollevarsi un po’ anche se con atroci dolori e respirare. Ma a sua volta, lo sforzo di puntare sul chiodo che fissava i piedi, per sollevarsi, e il dolore atroce che ne seguiva, portava alla “fatica”, e quindi alla tetania, anche gli arti inferiori e il povero condannato si afflosciava di nuovo e l’asfissia generale riprendeva.
Dalla Santa Sindone apprendiamo che anche il Signore dovette essere crocifisso con le ginocchia in flessione perché se ciò non fosse stato Egli non avrebbe potuto fare i movimenti che la S. Sindone ci ha documentato. I due rivoli di sangue che, dalla piaga del polso sinistro, subito scendono verso il margine ulnare rappresentano la posizione orizzontale iniziale. Le colate che scendono lungo gli avambracci verso i gomiti testimoniano sia i successivi accasciamenti di Gesù, sia i vari movimenti fatti per buttarsi ora tutto da una parte, ora tutto dall’altra.
I brevi rivoletti che lungo gli avambracci si distaccano dalla colata principale per andare verso i margini ulnari, rappresentano i momenti in cui il Signore, con uno sforzo supremo, si sollevava e portava le braccia verso una posizione orizzontale onde poter respirare, ed anche i movimenti fatti per portare verso l’orizzontale ora un braccio ora l’altro.
La stessa cosa si dica delle brevi colate che abbiamo trovato sulla fronte e sulla nuca. I loro vari zig-zag testimoniano i vari movimenti fatti da Gesù per buttarsi ora tutto a destra, ora tutto a sinistra.
Questa preziosa documentazione fa escludere che si sia usato un sostegno al perineo, sostegno di cui la Sindone non ci rivela l’esistenza, e che avrebbe prolungata l’agonia.
Come abbiamo accennato, il povero condannato poteva aiutarsi anche gettando il corpo ora tutto a destra ora tutto a sinistra: gettandosi a destra, il braccio destro andava più verso la verticale, però il braccio sinistro si poneva orizzontale e il condannato poteva espirare un po’ con la parte sinistra del torace: viceversa, buttandosi a sinistra poteva espirare con la parte destra del torace.
È forse, perché vedevano Gesù compiere questi movimenti e questi sforzi per respirare, che i Farisei gridavano “Ha salvato gli altri, non può salvare se stesso? Scenda ora dalla croce” (Mt. 2 7, 42).
L’agonia trascorreva, così, in una alternativa di accasciamenti e di sollevamenti: di asfissia e di respirazione.
La tetania però si faceva sempre più grave i crampi dapprima si sviluppavano nei muscoli dell’avambraccio, poi a poco a poco si estendevano ai muscoli del braccio degli arti inferiori, del tronco. Il condannato diveniva sempre più cianotico, la temperatura aumentava, la sudorazione si faceva esageratamente abbondante, accompagnata da brividi e capogiri, e quando venivano colpiti dalla tetania i muscoli della respirazione sia del torace che del ventre, la morte sorprendeva il crocifisso in uno spasimo di inspirazione.
Che il Signore abbia sofferto in croce per l’asfissia e la conseguente tetania, la Sindone ce ne dà una prova incontestabile: il torace è rigonfio al massimo; i due grandi pettorali, che sono i più potenti muscoli respiratori, sono in contrazione forzata, allargati e risaliti verso le clavicole e le braccia; tutta la gabbia toracica è pure risalita e ipertesa, in massima inspirazione; l’infossamento epigastrico appare approfondito, depresso, come conseguenza di questa elevazione, distensione in avanti ed in fuori, del torace; per questa elevazione forzata delle coste, la massa addominale è spinta in basso per cui, si vede, al di sopra delle mani incrociate, far rilievo il basso ventre. Nell’impronta posteriore si vedono i quadricipiti femorali e i glutei tesi nell’ultimo sforzo fatto da Gesù per sostenersi e poter respirare e parlare. Il Signore, però, pur avendo sofferto per l’asfissia e la conseguente tetania, non morì per questa causa. Infatti egli parlò proprio nell’ultimo istante di sua vita, anzi gettò anche un grande urlo, il che l’asfittico non può fare perché non può espirare e cioè non può mandar fuori l’aria dai polmoni.
Ho sete
Si legge nel S. Vangelo: “Gesù disse: Ho sete. E i soldati, inzuppata una spugna nell’aceto, la posero in cima ad una canna di issopo e gliel’accostarono alla bocca” . (Gv. 19, 29).
Il Prof. Tamburelli, autore delle più belle fotografie tridimensionali della Sindone, ha scoperto entro un grumo di sangue posto sulla guancia sinistra a lato del naso, una incisione, da lui così descritta “Questa incisione ha una parte superiore rettilinea, che può corrispondere alla parte piana della punta del ramo di issopo, prodotta dal taglio con un falcetto, ed una parte inferiore curva, che può corrispondere alla parte cilindrica della punta stessa. Si noti inoltre la traccia che partendo dal lato destro dei capelli, prosegue leggermente sulla guancia destra e sul naso e termina su tale grumo, e che sta ad indicare come la punta del ramo di issopo sia stata inizialmente appoggiata sul lato destro dei capelli e fatta scorrere fino a portare la spugna sulla bocca dell’Uomo della Sindone e quindi a produrre la suddetta incisione nel grumo di sangue”. (Da IlTempo, 18 Marzo 1985).
Tutto ciò potè accadere o per un movimento repentino del volto di Gesù, o per una errata mira del soldato.
LA MORTE DI GESU’ IN CROCE
Quando Giuseppe d’Arimatea si presentò a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù, Pilato si meravigliò che Gesù fosse già morto (Mc. 15, 44). Molte dovettero essere le cause della precocità della morte del Signore: la perdita di sangue verificatasi durante l’agonia nell’orto e la flagellazione; il dolore delle ferite dei chiodi; l’ispissatio sanguinis per l’imponente sudorazione, la spossatezza fisica di una intera giornata di terribili sofferenze; l’abbattimento morale causatogli dalla presenza della Madre desolata, dall’abbandono degli amici e dalle pene interiori.
Da quando, all’inizio di questo secolo, fiorirono gli studi sulla S. Sindone, si fecero varie ipotesi sulla causa vera della morte di Gesù. Molta fortuna fece l’ipotesi della morte per asfissia in seguito a tetania (crampi) instauratasi dapprima alle braccia, poi alle gambe, ai muscoli del ventre e da ultimo ai muscoli del torace: anche la morte per idropericardio traumatico fu invocata, come pure la morte per collasso ortostatico da insufficiente pressione arteriosa.
La rottura del cuore

Coloro che muoiono per rottura del cuore quasi sempre emettono un alto grido subito prima di morire: il loro pericardio è sempre molto teso e gonfio tanto che comprime in alto i polmoni; il sangue nella quantità di più di un litro, vi si trova sedimentato ma non coagulato: in basso v’è la parte corpuscolare, cioè i globuli rossi e bianchi, in alto galleggia il plasma o siero.
Ora, osservando la ferita del costato di Cristo, si ha netta l’impressione di una fuoriuscita violenta di liquido: questo infatti non è sceso secondo le linee della gravità ma violentemente, tumultuosamente, come spinto da una grande pressione. Forando il pericardio all’altezza dataci dalla Sindone e cioè fra la sesta e la settima costa, prima dovette uscire il sangue sedimentato al fondo del pericardio e poi il plasma.
Si tratta ora di spiegare la rottura del cuore.
In seguito ad un infarto, nelle condizioni di riposo, la zona infartuata va verso l’organizzazione e la cicatrizzazione; ma in condizioni sfavorevoli, i tessuti della zona di infarto vanno verso una mortificazione sempre maggiore (miomalacia) per cui sotto la pressione endocardica il miocardio può fissurarsi con conseguente emopericardio acuto e morte immediata del soggetto per tamponamento del cuore.
Ora, dalla descrizione evangelica dell’amarissima agonia di Gesù nell’orto, si può pensare che Gesù vi abbia subìto un infarto per spasmi delle coronarie. Marco (14, 33) ci dice che Gesù cominciò ad atterrirsi e ad angosciarsi. Colui che è colto da infarto prova un violento dolore anginoide e angoscia, diviene pallido, va in preda a profusa sudorazione ed ha la sensazione di una morte immediata per la caduta della pressione.
Luca ci avverte che anche Gesù ebbe profuso sudore: “In preda all’angoscia… il suo sudore divenne come goccie di sangue che cadevano a terra” (Lc. 22, 44). Marco ci riporta le parole di Gesù “L’anima mia è tristissima fino alla morte” (Mc. 14, 34). “Gesù poi si prostrò a terra e pregava” (Mc. 14, 35).
Il riposo che l’infartuato automaticamente si prende subito dopo l’infarto, specialmente se si sdraia e permette la ripresa della circolazione cerebrale, gli dà la sensazione di aver superato la crisi. È quanto probabilmente accadde a Gesù quando si prostrò a terra e forse vi restò per quattro, cinque ore in intensa preghiera. Superata la crisi, alzatosi calmo e pienamente cosciente, disse: “Basta, è giunta l’ora. Il Figlio dell’Uomo sta per essere consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo; ecco, il traditore è vicino” (Mc. 14,41-42).
Gesù non ebbe più tregua, finché sulla croce, dopo tante resistenze, in seguito ad un ennesimo sforzo di sollevamento per poter respirare, il suo miocardio si ruppe ed Egli “lanciato un grande grido, chinato il capo, rese lo spirito” (Le, 23, 46; Gv. 19, 30).
Se Gesù fosse morto per asfissia sarebbe svenuto e morto senza riprendere coscienza. Invece la posizione alquanto elevata delle braccia e la flessione delle ginocchia, gli permisero di combattere l’asfissia e, nei periodi di sollevamento, anche di parlare. Subito prima di morire, parlò (non avrebbe potuto parlare nei periodi di accasciamento per la forzata inspirazione e tanto meno gridare) e alla rottura del cuore gettò il grande grido e spirò.
Morì quindi cosciente e certamente in quell’istante – il più prezioso della sua vita – si offri al Padre, gridò la sua offerta al Padre. Noi non avremmo mai saputo ciò se la lancia del soldato romano non ce l’avesse rivelato.
Il profeta Davide, nel salmo 108, che è il salmo dell’innocenza di Gesù e della perfidia dei suoi persecutori, mette in bocca al Giusto, al Santo, alla Vittima innocente, queste misteriose parole: ‘Dentro di me, il mio cuore è ferito”(vers. 22).
Nel Salmo 69 poi, che nella sua seconda parte è il grido di angoscia del Fedele vittima del suo zelo, lo stesso Davide dice: “Salvami dai miei nemici… L’insulto ha spezzato il mio cuore e vengo meno. Ho atteso compassione ma invano… Hanno messo nel mio cibo veleno e quando avevo sete mi hanno dato aceto”. Questo salmo è messianico e viene citato più volte nei libri del Nuovo Testamento; per esempio da S. Matteo 27, 34 e 48; da S. Giovanni 2, 17; 15, 25; dagli Atti degli Apostoli 1, 20; dalla Lettera ai Romani 11, 9 e 10; 15, 3; dall’Apocalisse 3,15.
Non meno misteriose sono le parole scritte da santa Brigida nella sua seconda Orazione: “I dolori acutissimi delle tue ferite penetravano orribilmente nella tua anima beata e infierivano crudelmente sul tuo Cuore sacratissimo, finché, rottosi il cuore, esalasti felicemente lo spirito “. “donec, crepante corde, spiritum feliciter emisisti”.
Il capo inclinato
Giovanni ci dice che Gesù “chinato il capo, spirò” (Gv 19, 30). Nella S. Sindone, posteriormente, il collo è ben visibile mentre anteriormente non lo è. La distanza lineare fra la bocca e le articolazioni sterno-clavicolari è diminuita rispetto alla norma: è infatti cm. 8 invece di cm. 18 il che dimostra che il Signore ha il capo notevolmente flesso.
La rigidità cadaverica intervenuta subito dopo la morte (come avviene quando la morte è stata preceduta da grandi sforzi) ha fissato quella posizione, rivelata ora dal lenzuolo funebre. Probabilmente, per rispetto, la testa non fu forzata a riassumere la sua posizione naturale quando Gesù fu posto nel sepolcro. Ciò fu provvidenziale perché ci dà modo di sapere che Gesù morì dopo aver piegato la testa e quindi morì cosciente.
Se nell’istante della morte Gesù fosse stato accasciato, il capo non avrebbe potuto piegarsi in avanti perché infossato tra le braccia tendenti alla verticale e bloccato dai muscoli sternocleidomastoidei in tetania e cioè spasmodicamente contratti. Gesù era, dunque, in un momento di sollevamento, e quindi era cosciente, morì cosciente. Le fotografie tridimensionali ci documentano il reclinamento del capo in avanti. In tali fotografie sono ben evidenziate due grosse gocce molto appuntite e che dovettero formarsi dopo che Gesù, morto, reclinò il capo: una si trova sulla parte destra dei baffi, l’altra si è formata con il sangue colato dalla narice destra. Il fatto che esse sono rimaste appuntite ed esili, prova che non vennero più alimentate da nuovo sangue e il loro peso non fu sufficiente per farle cadere, e ciò è prova che la morte di Gesù avvenne sulla croce.
La morte sulla croce è anche confermata dal fatto che tutti i rivoli di sangue del volto, colano all’in giù, diretti verso terra; nessuno di essi è diretto verso la parte posteriore, come sarebbe avvenuto se il Signore avesse perduto sangue dopo la deposizione; come invece avvenne per il sangue uscito dalla ferita del costato, dopo che Gesù fu deposto dalla croce.
La rigidità cadaverica
È stato osservato che uomini colpiti dalla morte durante o subito dopo sforzi molto penosi, presentano, quasi subito dopo la morte, rigidità cadaverica.
Questo fenomeno è conosciuto dai cacciatori che quando raccolgono una lepre che è stata a lungo rincorsa dai cani, la trovano rigida, stecchita.
Anche al Signore dové succedere questo fenomeno perché la Sindone ce lo rivela con una accentuata rigidità cadaverica: le braccia tese, i muscoli pettorali tesi, i glutei tondeggianti, cioè rigidi e non afflosciati, il ventre rientrante nella parte alta, i quadricipiti femorali tesi.
È anche possibile che la rigidità mostrataci dalla S. Sindone sia dovuta al dolore acuto provato dal Signore nel momento della rottura del cuore: il Signore ebbe allora una contrazione spasmodica fissata subito dopo dalla morte.
LA FERITA DEL COSTATO
Il colpo di lancia
Quando si voleva por fine alle sofferenze del crocifisso, oppure si voleva per qualche
motivo farlo morire subito, gli Ebrei usavano spezzargli le gambe. Spezzate le gambe, veniva meno il punto di appoggio dei piedi, quindi il corpo restava penzoloni, le braccia andavano verso la verticale, l’asfissia diveniva completa, il crocifisso perdeva subito la conoscenza e nel giro di pochi minuti spirava.

Sappiamo dal Vangelo che questa fu la fine dei due ladroni crocifissi ai lati di Gesù e il motivo di questo atto fu l’imminenza del sabato (cioè dei primi vespri del sabato) nel qual tempo un condannato non poteva restare sul patibolo. “Furono i Giudei stessi – dice il Vangelo – affinché i corpi non rimanessero in croce durante il sabato,… a chiedere a Pilato che fossero loro spezzate le gambe e fossero portati via. Vennero dunque i soldati e spezzarono loro le gambe… A Gesù, però, vedendo che era già morto, non spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia, e subito uscì sangue ed acqua (Gv. 19, 31-34).
Sembrerebbe che fosse stato inutile trafiggere il fianco di Gesù, dacché egli era già morto, ma v’era un’altra legge che bisognava rispettare. La legislazione ebraica proibiva la consegna del corpo di un giustiziato ai familiari, ma i Romani l’avevano abrogata ed avevano imposto la legislazione romana per cui il corpo di un giustiziato poteva essere legalmente restituito al familiari purché muniti di autorizzazione del giudice o del tribunale che aveva emesso la condanna a morte; il carnefice però non poteva consegnarlo se non dopo essersi assicurato della morte avvenuta, con un colpo che gli aprisse il cuore.
Fu solo così che il carnefice poté consegnare il corpo di Gesù a Giuseppe d’Arimatea (Mt. 27, 58; Mc. 15, 45; Lc. 23, 52).
Il colpo di lancia inferto sul petto di Gesù ebbe un effetto strano: dalla ferita uscì sangue ed acqua e probabilmente con tanta forza da non colare lungo il corpo del Signore, ma da formare addirittura un getto che andò a cadere discosto dal piede della croce. Bisogna dire che ciò non fosse mai stato visto e che tutti se ne meravigliassero altamente, se san Giovanni nel raccontarcelo sente il bisogno di chiamare come testimone Dio stesso. Dice infatti nel suo Vangelo che “lui che ha visto, ne dà testimonianza e la sua testimonianza è vera; ed Egli (Dio) sa che lui dice il vero perché anche voi crediate”. Fu dunque un fatto mai visto questa fuoriuscita di sangue ed acqua, un fatto fuori dall’ordinario, grazie a Dio documentato dalla S. Sindone e che ci ha dato modo di sapere esattamente di che cosa è morto il Signore in croce: in seguito alla rottura del muscolo cardiaco il sangue era passato nel pericardio, provocando la morte per tamponamento del cuore. Il pericardio dilatato enormemente per la presenza di più di un litro di sangue quando, circa due ore o più dopo, fu trafitto dalla lancia di Longino, spinse fuori violentemente il sangue che già si era depositato e il siero che l’Evangelista Giovanni chiama “acqua”.
Il cuore occupa una posizione mediana e anteriore, dietro il piastrone sternale; mentre la sua
punta è nettamente a sinistra, la sua base supera a destra lo sterno. I carnefici, pratici del mestiere, dovevano sapere molto bene che il punto migliore per raggiungere il cuore era il quinto o il sesto spazio e cioè lo spazio fra la quinta e la sesta costa o fra la sesta e la settima costa. In quel punto la lancia penetrando quasi orizzontalmente, perfora facilmente la pleura e un lembo di polmone per raggiungere il pericardio e il cuore.
L’abbondanza del sangue e specialmente la violenza con la quale esso uscì dalla ferita furono dovute al fatto che dopo la rottura di cuore, tutta la colonna di sangue della vena cava superiore premette, per il principio di Pascal, sul sangue che si era riversato nel pericardio.
Invece, dopo che il Signore fu deposto dalla croce, la ferita prodotta dalla lancia continuò a sanguinare, senza violenza, per l’afflusso di sangue dalla vena cava inferiore.
L’impronta del colpo di lancia
Nella S. Sindone, all’altezza del quinto o del sesto spazio intercostale, a dodici centimetri
dallo sterno si vede una ferita di arma da taglio, ovale, lunga centimetri 4,4 e larga cm. 1,5. (In recenti scavi furono rinvenute a Gerusalemme molte lance romane di cm. 4 di larghezza).

Questa lesione è importante perché permette di affermare in modo scientificamente categorico che il Signore era realmente morto, come fa osservare anche il Vangelo: “I soldati vedendo che Gesù era già morto, non gli spezzarono le gambe, ma uno dei soldati gli colpì il fianco con la lancia e subito uscì sangue e acqua” (Gv. 19, 33-34).
La ferita è nitida come sono le ferite fatte post mortem che non mostrano turgore ai margini, non collabiscono, anzi tendono a retrarsi; ed infatti la ferita ha la forma ellittica propria delle ferite che vengono fatte dopo la morte. Dalla ferita si dipartono verso il basso, e cioè fin sotto l’arcata del torace, sulla parete addominale, colature di sangue, per una lunghezza di almeno 15 cm. e la larghezza di 6 cm. Questo sangue mostra le caratteristiche del sangue post-mortale: grumi aureolati di siero. Non è quindi omogeneo e sinuoso come i rivoletti delle braccia e della nuca: segno che il cuore non pulsava più e non alimentava più il progressivo formarsi dei rivoletti.
Il margine interno di questa colatura è dentellato, con frastagliature arrotondate che a primavista sembrano strane in una colata di sangue avvenuta in un cadavere immobile e verticale quelle ondulazioni corrispondono al rilevarsi delle coste e su ciascuna di esse alle digitazioni del muscolo grande dentato.
La S. Sindone permette di constatare che molto “sangue e acqua” uscì con violenza dalla ferita del costato. Questo fatto non ha avuto finora spiegazione se non ammettendo che Gesù sia morto per rottura del cuore, lesionatosi in una zona infartuatasi durante l’agonia nell’orto.
In tale circostanza, infatti, il soggetto muore nel giro di pochi secondi, dopo aver lanciato un grande grido.
Se Gesù fosse morto per asfissia si sarebbe trovato in uno stato di accasciamento e non avrebbe potuto né gridare né piegare il capo, già infossato fra le braccia; poi sarebbe stato incosciente per lo svenimento che sempre si accompagna all’asfissia.
Gesù invece gridò e piegò il capo: quindi era in uno stato di sollevamento: e fu forse questo suo ultimo sforzo di sollevarsi per respirare che gli procurò la rottura del cuore. Dal cuore il sangue passò nel pericardio che si dilatò enormemente e quando, circa due ore o più dopo, fu trafitto dalla lancia di Longino, spinse fuori violentemente il sangue già depositato e il siero (l’acqua).
Due Mani Benedette
L’impronta meravigliosa della ferita al petto, all’altezza della sesta e settima costa, con tutta la colatura della fuoruscita di sangue e acqua, non l’avremmo avuta se il lenzuolo fosse stato semplicemente adagiato sul corpo del Signore. Per convincersene si pensi alla posizione del braccio, proprio vicino alla ferita, si pensi alla distensione del lenzuolo, specialmente in seguito alle legature delle due fasce intorno al collo e all’altezza delle mani e si concluderà che solo un avvicinamento intenzionale del lenzuolo poteva causare la formazione di questa meravigliosa impronta e permettere quindi a noi la visione così nitida della quinta piaga del Salvatore. Fu forse la Madre con le Sue Mani Benedette, in quel momento di estremo saluto, ad aggiustare il lenzuolo sul corpo adorabile del Figlio e darci così la possibilità di contemplare la piaga del costato.
LA DEPOSIZIONE
Il distacco dalla croce
I nostri pittori hanno rappresentato la deposizione di Gesù dalla croce come una tristissima cerimonia, però compiuta nella pace: Maria da una parte tiene il braccio destro di Gesù nelle sue mani; Giuseppe d’Arimatea, dall’alto di una scala, distacca il braccio sinistro del Signore, Nicodemo, inginocchiato a terra, con una grossa tenaglia toglie il chiodo dei piedi. Era la scena che veniva rappresentata nei drammi liturgici detti “Misteri”.
La realtà dov’è essere stata ben più triste. I minuti contati, la fretta per non trasgredire la legge che imponeva non si toccassero cadaveri al sopraggiungere del sabato, dominarono la mestissima cerimonia e, se accettiamo la tradizione che S. Elena trovò la croce con i chiodi ancora attaccati, possiamo inferirne che Gesù fu strappato a forza dalla croce per essere portato con la massima fretta al sepolcro.
L’imminenza del riposo sabatico.
Ogni sabato presso gli Ebrei era preceduto da un giorno detto “di preparazione” (parasceve) nel quale si doveva preparare tutto quanto poteva servire al giorno dopo, non potendosi di sabato fare lavoro alcuno. Il sabato andava dalla notte del venerdì alla notte del sabato. Per notte s’intendeva l’apparizione in cielo della terza stella. Gli Ebrei erano aiutati all’osservanza del riposo sabatico da tre suoni di tromba, emessi dal Tempio.
Al primo suono si doveva smettere ogni lavoro dei campi; al secondo suono si dovevano chiudere le botteghe, al terzo suono di doveva smettere di cuocere cibi, e si accendevano le lampade. Dopo un piccolo lasso dl tempo seguivano altri tre suoni per indicare il vero inizio del sabato. Questi ultimi tre suoni venivano emessi circa un’ora dopo il tramonto, all’apparizione della terza stella.
Nel pomeriggio i Giudei chiedono a Pilato che siano rotte le gambe ai crocifissi perché i loro corpi non potevano rimanere in croce all’inizio del sabato, che era il grande sabato della Pasqua (Gv. 19, 31).
Pilato acconsente; però a Gesù, essendo già morto, fu dato solo il colpo di lancia. Solo “dopo questi fatti” Giuseppe d’Arimatea corre da Pilato a richiedere il corpo di Gesù. Pilato chiama il centurione e assicuratosi della morte di Gesù ne concede il corpo a Giuseppe (Mc. 15, 4345). Secondo la legge ebraica la salma di Gesù avrebbe dovuto essere gettata nella fossa comune, ma i Romani avevano imposto la loro legge che permetteva ai familiari di avere il corpo di un condannato a morte.
Giuseppe corre a comperare la sindone, mentre Nicodemo procura gli aromi. Ritornati al Calvario doveva restar loro poco tempo, forse una mezz’ora, durante il quale dovettero distaccare i piedi dal chiodo, disinnestare il patibolo, deporre il corpo di Gesù per terra, togliere i due chiodi delle mani o forse sfilare le due mani dai chiodi, trasportare la Salma al sepolcro posto nelle vicinanze, ricomporla specialmente forzando le braccia ad incrociarsi sul corpo, disporre la Salma sulla pietra ove era già stata preparata la sindone, riportare la sindone dalla parte della testa sul davanti fino ai piedi, porre qualche benda intorno al corpo di Gesù (Gv. 19, 40), rotolare la grande pietra sull’entrata del sepolcro e ritornare in fretta a casa, perché – come ci dice S. Luca – le tre stelle brillavano in cielo ed erano già quindi imminenti i tre squilli che indicavano non tanto la fine di ogni lavoro (già avvenuta dopo il terzo suono di tromba) quanto l’inizio del vero e sacro riposo sabatico. La lavatura della salma, la rasatura del capo e della barba e le unzioni con aromi in uso presso gli Ebrei, furono rimandate al giorno dopo il sabato.
Il distacco dei piedi

È difficile dire in quale momento (se quando Gesù era ancora in croce appena distaccati i piedi dal chiodo, o subito dopo il distacco di tutto il corpo dalla croce, o quando Gesù fu deposto nel sepolcro), ma è certo che i due piedi furono distaccati a viva forza dalla posizione che avevano quando Gesù fu crocifisso. Questo fatto è dimostrato con evidenza dalla S. Sindone ed è stato scoperto dall’illustre sindonologo Mons. Giulio Ricci. Su tutti e due i piedi infatti sono conservate le impronte delle due mani che li hanno distaccati: il piede sinistro porta le impronte di una mano destra e il piede destro di una mano sinistra. Di ogni mano si vedono solo il mignolo, l’anulare e il medio, essendo le altre due dita l’indice e il pollice, occupate nell’abbracciare la parte opposta del piede per dare stabilità alla stretta.
La colatura di sangue all’altezza delle reni

Si formò quando il corpo del Signore venne posto in posizione orizzontale, e dalla ferita del costato uscì anche sangue proveniente dalla vena cava inferiore. Questo sangue dov’è essere in notevole quantità e uscire anche durante il trasporto al sepolcro. Quello che aderì alla pelle diede l’impronta che osserviamo.
NELLA PACE DEL SEPOLCRO
Si legge nel S. Vangelo: “Giuseppe d’Arimatea che aveva comperato un lenzuolo, calò (il corpo di Gesù) dalla croce e lo depose in un sepolcro scavato nella roccia (Mc. 15, 46) dopo averlo, insieme a Nicodemo avvolto nel lenzuolo e in bende insieme ad aromi”; (Gv. 19,40).
Il corpo del Signore non fu cosparso di aromi in polvere, la quale avrebbe coperto e fatto sparire le tracce di sangue e neppure fu unto con balsami che avrebbero prodotto una sola macchia uniforme. Invece gli aromi e specialmente il natron, un carbonato di sodio che veniva importato dall’Egitto, furono sparsi sotto la Sindone e sopra di essa, dopo che era stata rivoltata sul corpo di Gesù. Abbondanti tracce ne sono state ritrovate nel retro della Sindone.
Le cento libbre di mirra e di aloe, circa 35 chili, portate da Nicodemo, secondo il costume ebraico furono abbondantemente cosparse ovunque, sulle pareti del sepolcro, omaggio profumato al Defunto per favorirne la conservazione; e minutissima polvere di aloe e di mirra si trova fra le fibre della Sindone.
Mentre le braccia di Gesù furono a viva forza portate dalla posizione che avevano assunto in croce, alla posizione che ci indica la S. Sindone, fortunatamente per noi la testa fu lasciata nella posizione che aveva conservato per la rigidità cadaverica così che noi abbiamo il documento che Gesù morì cosciente e non per tetania, la quale lo avrebbe fatto svenire prima che morisse e non avrebbe permesso il ripiegamento della testa che sarebbe rimasta invece infossata fra le due spalle.
Come già detto a suo luogo, ci vogliam porre qui alcune domande che nascono dalla presenza della Madre di Gesù:
Fu la Madre Sua che non volle che la testa subisse il trauma di essere raddrizzata? Non lo sappiamo, ma possiamo immaginarlo. Fu Lei ad accomodare i bei capelli intorno al Volto del Figliolo, capelli che sono l’unica cosa in ordine sul corpo martoriato del Signore?
E probabilmente dobbiamo pure a quelle Mani Benedette se nella S. Sindone si è prodotta la meravigliosa impronta della ferita al fianco, con tutta la colatura di sangue ed acqua. Infatti, se il lenzuolo fosse stato semplicemente adagiato sul corpo del Signore l’impronta della ferita della lancia non avrebbe potuto formarsi. Ma quale Madre davanti al figlio morto, non gli pone la mano sul petto, quasi per assicurarsi che il cuore del figlio non batte più?

I due piedi presentano i talloni divaricati e gli alluci vicini, posizione contraria a quella che normalmente assumono i cadaveri e cioè talloni uniti e alluci separati. Ciò è spiegato dal fatto che la rigidità cadaverica li ha fissati nell’atteggiamento che avevano in croce, quando furono posti uno sull’altro per essere crocifissi con un sol chiodo.
Un sudario (o grande fazzoletto) fu posto intorno al volto al di sopra della Sindone, per evitare che la bocca s’aprisse; poi furono fatte due o tre fasciature tutt’intorno al corpo.
Una volta chiusi gli occhi dei loro defunti gli Ebrei usavano mettere sulle palpebre abbassate due monete.
Anche sugli occhi di Gesù furono poste e la S. Sindone ce lo ha rivelato. Si tratta di impronte di monete coniate fra il 29 e il 32 dell’era di Cristo da Pilato e conosciute dai numismatici per due errori nel nome in greco dell’imperatore Tiberio. Vi si leggeva infatti, TIBERIU CAISAROS invece di TIBERIOU KAISAROS. Dopo il 32 ci fu un’altra emissione della stessa moneta ma la dicitura fu corretta.
Un altro commovente particolare ci mostra la S. Sindone: Gesù ha la bocca semiaperta, quasi che la morte l’abbia fissata nel suo ultimo grido non finito, perché stroncato dalla rottura del cuore. Che cosa gridò Gesù? Voleva forse gridare “Mamma” e la morte gli impedì di finire la parola? Se si pensa che tutti i nostri cari muoiono invocando la mamma si può pensare che anche l’ultimo pensiero di Gesù sia stato per la sua SS. Madre.
Maria aveva sentito quel grido ed ora vedendo la bocca del suo Figliolo semiaperta, dovette uscire dal sepolcro con quello straziante grido nella sua mente e nel suo cuore.
Usciti dal sepolcro e rotolata la grande pietra che ne ostruiva l’entrata, la mesta comitiva si affrettò a ritornare a casa, perché, come ci dice S. Luca, “già brillavano in cielo le luci del sabato” (Lc. 23, 54) ed erano quindi imminenti i tre squilli di tromba che indicavano non tanto la fine del lavoro (già avvenuta precedentemente in seguito ad altri squilli), quanto l’inizio del vero sacro riposo sabatico.
La lavatura della salma, la rasatura del capo e della barba e le unzioni con aromi, proprie dei riti degli Ebrei di cui discepoli e pie donne “erano molto preoccupati” (Lc. 23, 56) furono rimandati al giorno dopo il sabato: ma il Padre che è nei Cieli aveva disposto diversamente e Maria, la Madre di Gesù, attese in preghiera il momento della resurrezione del suo Figlio.
LA RESURREZIONE
Il corpo del Signore non rimase avvolto nel lenzuolo per un periodo superiore alle 30-40 ore; ciò è comprovato dalla totale mancanza di tracce di processi putrefattivi. Questa mancanza assoluta di ogni segno di decomposizione cadaverica è una constatazione comprovata da tutti i più recenti studi. La S. Sindone è quindi una prova indiretta dell’avvenuta resurrezione di Cristo: se Cristo non fosse risorto, la Sindone si sarebbe alterata, come sempre avviene nelle tele che avvolgono salme inumate.
Ma la Sindone non reca neppure tracce di striature, che si sarebbero verificate se essa fosse stata distaccata dal corpo di Cristo nel modo consueto, naturale. Il corpo dovette sparire dalla Sindone, lasciandola immutata nella sua posizione, perché le impronte delle ferite e dei coaguali sono rimaste intatte e non sono strusciate come sarebbe avvenuto se la salma fosse stata mossa.
Il decalco perfetto comprova pure che il lenzuolo non fu tolto dal corpo con l’aiuto di liquidi emollienti.
Sembrerebbe che il corpo sia come sparito dall’interno della Sindone, in un istante, al momento della Resurrezione.
Ed infatti nel Vangelo di S. Giovanni si legge che quando questo Apostolo entrò nel sepolcro vide “otbonia keimena” cioè “i lini appiattiti, afflosciati” come se il corpo che essi avevano contenuto si fosse volatilizzato, fosse scomparso, e vide anche che: “Il sudario (o fazzoletto, o mentoniera) che era stato aggiustato alla testa, non era afflosciato come i lini, ma distintamente avvolto e arrotolato al suo posto” (Gv. 20, 6-7) così come era stato posto intorno alla faccia del Signore.
Allora dice il Vangelo “vidit et credidit”; dopo aver visto credette. Che cosa vide e che cosa credette? Vide i lini intatti nella posizione in cui li avrebbe lasciati un corpo che avesse preso la proprietà dello spirito, e credette nella Resurrezione del Signore. (Gv. 20, 8-9).
In altre parole il corpo che la Sindone conteneva si era come “smaterializzato” di colpo, passando altraverso la tela senza smuoverla.
La S. Sindone, quindi, non ci rivela soltanto le sofferenze e la morte di Gesù, ma forse anche ci conferma il mistero della Sua Resurrezione, e non è improbabile che proprio a ciò pensasse S. Cirillo di Gerusalemme quando, nel 348, invitava i suoi fedeli “a guardare il sepolcro vuoto e i lini” come prova della Resurrezione di Gesù.
LA CROCE E 1 CHIODI DEL SIGNORE
Dopo la morte del Signore, la sua croce, la tavola del titolo, le croci dei ladroni e i chiodi furono interrati perché per legge erano ritenuti oggetto di impurità legale. L’imperatore Adriano, nel primo secolo d.C., dopo aver coperto la cima del Golgota e livellata la valletta del sepolcro con materiale di riporto, aveva circondato il luogo con un grande muro, e sulla spianata aveva edificato un tempio a Venere e Giove. L’imperatore Costantino fece demolire il tempio e rimuovere il materiale di riporto fino a ritrovare il livello originario. Nel frattempo arrivò a Gerusalemme l’ottuagenaria imperatrice Elena, madre di Costantino, che avendo individuato il posto ove da una famiglia si sapeva che erano state sepolte le croci, fece scavare finché esse non emersero. Per distinguere la croce di Gesù, sembra che sia servita del titolo, ma si narra anche il miracolo di una donna ammalata guarita al contatto della vera croce. E i chiodi, come poté distinguerli da quelli usati per i due ladroni? C’è chi ha supposto che i chiodi fossero ancora attaccati alle croci perché, data l’imminenza
del sabato, i corpi morti del Signore e dei due ladroni non potendo restare attaccati alla croce, furono violentemente strappati. Due chiodi Elena regalò al figlio; il quale con uno fece un cerchietto per il suo elmo, oggi conservato a Monza (Corona Ferrea) e usò l’altro come freno per il suo cavallo, ed è oggi conservato nel duomo di Milano. Il terzo chiodo Sant’Elena lo portò con sé a Roma, e si conserva nella Basilica Sessoriana che era il salone di ricevimento del suo palazzo (Sessoriam) poi trasformato nella chiesa oggi chiamata di Santa Croce in Gerusalemme.
IL VOLTO DEL SIGNORE
“Più che un’immagine è una presenza”. (Paul Claudel)
La S. Sindone ci rivela un volto bello ed imponente.
“Quando Gesù cominciò a predicare aveva circa 30 anni” ci dice S. Luca (Lc. 3-23).
Nella Sindone Gesù appare più vecchio, ma si tenga presente che è il ritratto di un uomo suppliziato, che ha subito torture, percosse e sofferenze inenarrabili, sforzi e fatiche inaudite.
2 FIGURE DEL PROF TAMBURELLI di pag. 94 libro grosso
il Prof. Tamburelli ha sottoposto il volto della Sindone ad un lavaggio elettronico che attenuasse o cancellasse i segni del sangue e delle ferite, senza togliere eventuali rughe, le borse sotto gli occhi ecc.
Questo lavaggio ha rivelato un viso di austera bellezza, giovane, dai lineamenti ebraici: il naso è lievemente ricurvo, la bocca piccola, la fronte alta e liscia, un volto di una bellezza severa, di un uomo sui 30 anni.
Sebbene orribilmente straziato, esso conserva un’attrattiva che rapisce per la sua incomparabile bellezza, commuove pei segni di uno straziante dolore fisico e morale, forse soprattutto morale, soggioga perché è il volto di Dio fatto Uomo.
Su di esso sono soffusi sentimenti di dolore calmo e rassegnato, di tristezza dolce e mite, uniti ad un atteggiamento di serenità e di sovranità… Un volto simile, così espressivo, non si è mai visto su nessuna tela…
“Il Volto dell’Uomo della Sindone rappresenta ciò che v’è di più commovente nel campo dell’arte… Ciò che traspare meglio su questa nobile fisionomia così tremendamente martoriata è un senso di straordinaria pace, di solennità unita a dolce serenità e a calma profonda che rapisce sempre più “. (E. Faure).
“Volto di ineffabile e pacata bellezza, e d’una maestà veramente sovrumana”. (Daniel Rops).
Da questo volto traspare la divinità e si prova la sensazione che questo sia il ritratto di Gesù. “Nessun’opera potrà mai rendere l’espressione del divin volto della Sindone, con i suoi molteplici e opposti sentimenti di dolcezza e di forza, di nobiltà e umanità, di serenità e tristezza, di vitalità pulsante sotto le sembianze della morte… È il Cristo morto e vivo, pieno della maestà del giudice, dell’eroismo del martire, della dolcezza dell’amico; è il Cristo della passione e del Calvario, il Cristo trionfante sulla morte, il Cristo dell’amore, della misericordia e della vita eterna”. (Noguier de Malijay).
Abbiamo studiato con amore questo documento spettacolare che è la S. Sindone. Il suo messaggio è semplice: il Signore si è incarnato, ha vissuto fra noi, è morto, è risorto.
Proprio a noi, alla generazione moderna, che tutto vuol vedere e toccare con mano, che di tutto vuol rendersi conto, la Divina Provvidenza ha riserbato ed ha rivelato, attraverso la fotografia e la scienza, questo documento sconvolgente, vero e reale che è la S. Sindone.
In essa abbiamo potuto vedere, toccare, documentare, quanto già i S. Vangeli ci avevano insegnato intorno alla passione, all’agonia e alla morte del Signore. Momento per momento, la S. Sindone ci ha messo sotto gli occhi quanto il nostro caro Signore ha sofferto per noi nella flagellazione, nella incoronazione di spine, durante la via al Calvario, nella crocifissione, nell’agonia in croce, fino a quando esalò l’ultimo respiro, documentato dai copiosi fiotti di sangue sgorgati dalla ferita del costato.
Perciò il S. Padre Paolo VI ha potuto dire: Gesù non ba scritto nulla, ma è rimasto con noi nell’Eucaristia, nella Gerarchia, nei poveri, e in questo mirabile documento della Sua passione e morte scritto a caratteri di sangue.
DUE PAROLE DI STORIA
L’antichità rifuggì dal rappresentare il Signore umiliato e sofferente nelle scene della Passione. Si preferivano i simboli: l’agnello, il pesce, la croce gemmata; oppure il Cristo era rappresentato o come un maestro in atto di insegnare, o come il re del cielo posto su un arcobaleno iridato simbolo dei Cieli.
Solo nel secolo sesto si diffonde l’immagine di Cristo Crocifisso, però il Signore è sulla croce non sofferente ma in atteggiamento di vincitore; è vestito, con gli occhi aperti.
A sostenere questo stato di cose contribuiva anche l’eresia che sosteneva che Cristo non aveva un corpo umano reale, ma solo apparente (i Doceti) e una sola natura, quella divina (i Monofisiti).
Fu il Concilio Trullano dell’anno 691 che, travolgendo perplessità e indugi, prescrisse nell’articolo 82 “che la figura di Cristo nostro Dio sia innalzata e dipinta anche nelle immagini, sotto forma umana, invece dell’antico agnello, di modo che, comprendendo il valore profondo dell’umiliazione del Verbo di Dio, siamo indotti a ricordarci anche della sua vita terrena, della sua passione divina, della sua morte salutare e della redenzione”.
In tal modo la Chiesa affermò la via della verità, a differenza degli eretici che continuarono a rappresentare la Croce senza il Signore Crocifisso, come i Nestoriani in tutta l’Asia e i Copti in Abissinia.
La situazione poi era peggiorata in Palestina dal fatto che il possesso di un lenzuolo funebre costituiva il delitto “di impurità legale” severamente punito, e supponeva un altro delitto non meno grave, quello di “violazione di sepolcro”.
È logico che, per queste circostanze, sia in Oriente che in Europa era inconcepibile un culto pubblico della S. Sindone: ciò non toglie però che la sua esistenza sia confermata da varie prove:
Nel II secolo la troviamo menzionata in due Vangeli apocrifi. In uno, il “Vangelo di Matteo” detto anche “Vangelo degli Ebrei” si legge che “il Signore stesso, dopo la resurrezione, affidò la Sindone al servo del Sacerdote del Tempio”. Questo passo viene ricordato nel suo “De viris illustribus” da S. Girolamo che tradusse dall’aramaico in greco e in latino tale Vangelo: esso testimonia la convinzione, comune in quel tempo, che la Sindone fosse religiosamente conservata. L’altro Vangelo apocrifo, pure esso del secondo secolo che menziona la Sindone è il “Vangelo dei Dodici Apostoli” detto anche “Gesta Pilati”.
Dopo l’editto di Costantino (313) la S. Sindone viene nominata ed esposta pubblicamente. Ne sia prova una omelia di S. Cirillo (315-387) vescovo di Gerusalemme, nella quale egli dice ai suoi fedeli “Quanto il Signore abbia sofferto nella sua Passione noi possiamo vederlo nei suoi lini funerari che conserviamo in questa nostra chiesa”, cioè nella Basilica Costantiniana del S. Sepolcro. Tale omelia è dell’anno 348.
Che la Chiesa fosse a conoscenza che i lini della Passione del Signore erano gelosamente conservati se ne ha una prova nel fatto che Papa Silvestro, al Concilio provinciale tenutosi a Roma alla terme di Traiano nel 325, alla presenza dell’imperatore Costantino e di 267 vescovi, stabili che “Il santo sacrificio della Messa fosse celebrato su una tovaglia di lino consacrata dal Vescovo come se lo fosse sulla Sindone monda di Cristo “. (Labbè, Sacr. Concilia, p. 1542).
Nel 500 d.C. l’imperatore Giustiniano mandò “esperti” a Gerusalemme perché misurassero esattamente la statura di Gesù, per far costruire una croce da sistemare in Santa Sofia. Sembra logico pensare che si poteva fare ciò soltanto servendosi della Sindone.
Nell’Itinerarium di Antonio Piacentino, che visitò i Luoghi Santi attorno all’anno 570, si dice che in un piccolo monastero rupestre di suore di clausura vicino al Giordano, veniva conservato “il Sudario che fu sulla fronte del Signore”.
San Braulio, vescovo di Saragozza, morto nel 651, parla della colonna della flagellazione dicendo che anche S. Girolamo la vide e descrisse e aggiunge: “Intorno ai lini e alla Sindone con cui è stato avvolto il corpo del Signore so che esistono, pur non conoscendone lo stato di conservazione; ma non è possibile pensare che ci sia stata trascuratezza nel conservare per i tempi futuri le reliquie conservate fin dal tempo degli Apostoli”.
Nel secolo ottavo, nel Prefazio del sabato dopo Pasqua del Messale Mozarabico, usato in Spagna, si legge: “Pietro vide le recenti tracce lasciate sopra i pannolini del Morto che era risorto “.
Già si è accennato che l’immagine del Salvatore dovette formarsi nella Sindone solo in seguito all’invecchiamento del tessuto di lino. Ciò spiega forse perché parlando della Sindone non si accenni mai, nei documenti su accennati, all’immagine del Signore.
Ch’io sappia, la prima volta, è nella relazione del pellegrinaggio fatto nel 670 dal monaco Arculfo, relazione redatta dal monaco Adamanno. Vi si parla di due reliquie venerate a Gerusalemme: la prima è un Sudario conservato in uno scrigno avvolto in un’altro panno di lino, che Arculfo vide e baciò insieme a una grande moltitudine di persone adunate nella chiesa. L’altra è “un altro lino più grande molto venerato anche perché lo si riteneva tessuto dalla Madonna; in tale lino sono ricamati i nomi dei dodici Apostoli e nel mezzo figura la stessa immagine del Signore; esso da una parte è di colore rosso e nel retro è di colore verde”. Per i nomi dei dodici Apostoli si può pensare ad una fascia posta intorno al lenzuolo con i nomi ricamati, fascia non giunta fino a noi, mentre pel colore verde del retro del lenzuolo è interessante il fatto che la Sindone è giunta a noi protetta nel retro da un lino di color verde.
Non si conoscono con esattezza le vicende storiche durante il periodo dell’ottavo e nono secolo. Sembra che durante le invasioni persiane ed arabe in Palestina, la S. Sindone sia stata portata al sicuro ad Edessa nell’Anatolia. Ciò fu provvidenziale perché in tal modo essa poté sfuggire alle distruzioni di immagini che si fecero nell’impero bizantino durante le persecuzioni iconoclaste.
Nel sec. X v’è la testimonianza di Epifanio Monaco che nel suo Hagiopolitae ci assicura che la Santa Sindone era a Gerusalemme. “A Gerusalemme – egli scrive – sono conservate le reliquie della Passione: lancia, spugna, canna, corona di spine e la Sindone”.
Finalmente il 16 Agosto 944 la S. Sindone fu portata a Costantinopoli. L’entusiasmo dei fedeli fu enorme ed ogni anno il popolo ricordava quel giorno con una solennissima festa.
Ogni venerdi la S. Sindone veniva esposta ai fedeli in modo che l’impronta del Signore si vedesse in piedi: da qui nacque la falsa notizia che Cristo fosse zoppo perché la Sindone ci mostra la gamba sinistra più corta in quanto ancora nella posizione flessa assunta durante la crocifissione, fu così che in Oriente, nelle Croci, fu posto un suppedaneo obliquo.
Sappiamo anche che alle Blacherne di Costantinopoli veniva distribuita una fettuccia riproducente la lunghezza della figura sindonica. È da allora che il volto di Gesù viene copiato dalla S. Sindone e copie si diffusero in tutta l’Europa facendo da modello ai mosaicisti di Roma e della Sicilia. Per capire ciò si ricordi che la Chiesa Ortodossa proibiva di “inventare” immagini religiose: si poteva solo ripeterle dalle copie derivate dall’originale. Il S. Volto della Sindone fu ritenuto originale e perciò divenne il modello per secoli di tutte le icone bizantine. Se ne trova già una, risalente al VI sec., nel Monastero di S. Caterina sul Sinai e dopo il sec. VII, il Volto sindonico si trova perfino coniato su alcune monete di Costantinopoli.
Nel 1204 la S. Sindone si trovava ancora “nella cappella imperiale delle Blacherne a Costantinopoli ed ogni venerdì veniva esposta per diritto, in modo che si poteva veder bene la figura di Cristo”. Così scrisse Roberto di Clary che ne fu testimone oculare. Roberto di Claiy un anno dopo prese parte alla conquista di Costantinopoli e sappiamo che il Vescovo di Troyes, Garnier de Trainel, fu incaricato di custodire le reliquie della Cappella imperiale di S. Maria della Blacherne.
Roberto di Clary, ritornato in Francia, scrisse le sue memorie che, fortunatamente per gli studiosi, furono scoperte agli inizi di questo secolo e subito pubblicate dall’editore Lauer a Parigi nel 1924 col titolo: La conquète de Constantinople. A pag. 90 di dette memorie si legge che nella basilica delle Blacherne era conservata la Sindone del Signore, ma che durante il saccheggio della città essa era sparita.
Ultimamente è stato scoperto un documento per noi estremamente interessante: è una lettera del 1205 con la quale Teodoro Angelo, membro della Famiglia Imperiale di Costantinopoli, prega il Papa perché si adoperi affinché la S. Sindone sia restituita a Costantinopoli.
Non è improbabile che sia stato il vescovo di Troyes, Garnier de Trainel a voler mettere la S. Sindone al sicuro in occidente e naturalmente in Francia, dopo una breve sosta ad Atene.
Un “familiare” non meglio identificato, di tale vescovo, ritornato in Francia, sposò una damigella della famiglia dei Conti di Charny e dal 1206 al 1350 sembra che la Sindone sia stata sempre conservata a Besançon, o presso questa famiglia di cui esiste uno stemma con la riproduzione della Sindone, o presso altre famiglie della cerchia dei Templari, i quali furono anche accusati di avere un culto segreto pel Volto Santo.
Nel 1349, mentre la Sindone era conservata nella Cattedrale di Besançon, subì un primo incendio, le cui tracce sono visibili nella copia della S. Sindone eseguita dal Durer nel 1516.
Nel 1349 sembra che il Conte Goffredo di Charny, signore di Lirey, abbia avuto una specie di conferma del possesso della Sindone da parte del re Filippo di Valois. È un fatto che, in quel tempo, egli fa costruire a Lirey una chiesa collegiata alla quale dona la S. Sindone perché vi sia conservata.
Essa vi rimase fino al 1418 dopo il quale anno, in seguito a guerre, subì vari spostamenti.
Sempre in possesso dei Conti di Charny la ritroviamo a Chambery portatavi da Caterina di Charny che la donò alla duchessa Anna di Lusignano, figlia del re di Cipro e moglie di Ludovico di Savoia. Ciò avvenne dal 1448 al 1453 e da allora la S. Sindone fu sempre proprietà di casa Savoia. Nella magnifica cappella del palazzo ducale di Chambery ove essa fu custodita dal 1467 al 1578, subì, il 4 dicembre 1532, un secondo incendio, che per poco non la distrusse.
Nel 1535 il duca di Savoia Carlo III, per metterla al sicuro durante la guerra fra l’imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I, la portò a Torino, di dove il duca Ernanuele Filiberto nel 1561 la riportò a Chambery, dove si era stabilito. Di lì, lo stesso duca, nel 1578, la riportò a Torino per esaudire il desiderio dell’Arcivescovo di Milano, il Cardinale S. Carlo Borromeo, che aveva fatto voto di andare a venerarla; poi, avendo il duca fissata la sua residenza a Torino, la Sindone non fu più riportata a Chambery, ma rimase a Torino.
A Torino, su disegni del Guarini, fu costruita, dietro 1’altar maggiore della cattedrale, una cappella con una cupola alta 65 m. inaugurata nel 1694. Il Guarini religioso teatino (1624-1683) era stato missionario in India e mise nella sua cupola motivi orientali.
Il lungo itinerario compiuto dalla S. Sindone è documentato anche dai pollini trovati fra le fibre del tessuto, visibili con microscopio elettronico a 36.000 ingrandimenti. In essa, infatti, furono trovati pollini di 25 piante di Gerusalemme e di 11 piante del Mar Morto; pollini di 18 piante dell’Anatolia ove, a Edessa, la S. Sindone fu messa al sicuro durante le invasioni persiane e arabe dopo il V sec.; pollini di 11 piante di Costantinopoli, ove la Sindone rimase dal 944 al 1205; indi pollini di 19 piante della Francia Centrale, pollini di 13 piante della Savoia e pollini di 16 piante del Piemonte.
Poniamo termine al nostro breve studio, riportando un prezioso documento: il brano di una lettera, databile intorno al 73 d.C., che il filosofo siro Mara Bar Serapione, scrisse al figlio, studente in Edessa: “Che vantaggio han tratto gli Ateniesi dall’aver ucciso Socrate, misfatto che dovettero pagare con la carestia e con la peste? Oppure quelli di Samo dall’aver arso Pitagora, se poi il loro paese fu in un attimo sepolto dalle sabbie? O gli Ebrei dall’esecuzione del loro saggio Re, poiché da quel tempo furono spogliati del loro regno ? Un Dio di giustizia fece infatti vendetta di quei tre saggi. Gli Ateniesi morirono di fame, quelli di Samo furono sommersi dal mare, gli Ebrei vennero uccisi e scacciati dalla loro terra a vivere dispersi per ogni dove. Socrate non è morto, grazie a Platone, e nemmeno Pitagora a causa della statua di Era. Né il Re saggio, grazie alle nuove leggi da lui promulgate”.
Che il Signore Gesù, morto una volta per noi, possa sempre rivivere nei nostri cuori con l’osservanza delle sue leggi.
APPENDICE: ESAME AL CARBONIO 14
A parte il fatto che il risultato dei tre laboratori sul C14 sia stato valutato da una sola persona, il Dott. Tite del British Museum, senza possibilità di controllo da parte di alcuno e che, contrariamente all’accordo preciso, il risultato degli esami sarebbe dovuto rimanere segreto fino alla comunicazione ufficiale del Card. Ballestrero (mentre tempo prima v’era stata un’incredibile fuga di notizie), risulta a tutti chiaramente che questo esame al C14 è troppo in contrasto con le scienze (e sono una decina) che hanno dimostrato l’antichità della Sindone.
Io vorrei qui sottolineare la scarsa attendibilità dell’esame al C14.
Dico subito che non è mia intenzione contraddire i risultati degli esami al C14, ma mi preme notare che la storia riporta incredibili errori degli esami al C14.
Il C14 si trova nell’atmosfera e tutti i viventi, siano essi vegetali o animali o uomini, lo incorporano: i vegetali dall’atmosfera; gli animali e gli uomini mangiando vegetali e animali.
Con la morte del vivente non solo cessa l’incorporazione del C14, ma se ne inizia l’emissione che dura migliaia e decine di migliaia di anni, a seconda del tipo di organismi e dell’ambiente nel quale si trovano. La quantità di C14 esistente in un organismo può darci un’idea dell’età di tale organismo.
Tale esame deve però tener conto di un tal numero di circostanze variabili che il risultato finale è quasi sempre mal sicuro. Così dovremmo sempre essere certi che la quantità di C14 presente nell’atmosfera sia sempre costante, che il magnetismo terrestre non abbia subìto variazioni, come pure che sia sempre stato invariato l’afflusso dei raggi cosmici, affluso che varia notevolmente con la esplosione delle super-nove in cielo e delle bombe atomiche sulla terra.
Per tutti questi motivi, nei bollettini scientifici vengono spesso segnalati errori madornali di esami fatti col C14, come quello condotto su gusci di lumache ancora viventi che risultarono vecchie di 26.000 anni (da “Science”, n. 22, 1984) o quello (cfr. “Antartic Journal” Sett.-Ott. 1971) condotto su una foca uccisa da poco, che risultò morta da 1.300 anni!
Il prof. W Wolfli, direttore del laboratorio di Zurigo (uno dei tre laboratori che hanno esaminato la Sindone) ha sottoposto all’esame del C14 una tovaglia tessuta da sua suocera 50 anni prima ed ha avuto il responso che la tovaglia era vecchia di 350 anni. Il professore si scusò dicendo che l’errore era forse dovuto all’uso di detersivi…
Lo stesso prof. Michael Tite, già ricordato, ha dichiarato che una sola radiazione anomala sulla Sindone può invalidare l’esame del C14. Si pensi quindi se tale esame poteva essere effettuato sulla Sindone considerando alcuni fatti ai quali qui vogliamo solo accennare:
– La Sindone fu per secoli esposta al fumo delle candele.
– Spessissimo fu baciata e toccata dalle mani dei fedeli.
– Il 14 aprile 1503, a Bourg-en-Bresse, alla presenza di tre Vescovi la Sindone fu sottoposta alla cosiddetta “ordalìa” (o prova del fuoco): fu immersa nell’olio bollente per provare la sua autenticità e l’indelebilità delle sue impronte. Quali effetti ha potuto avere ciò sui risultati dell’esame al C14?
– Nella notte del 3 dicembre 1532, a Chambery, la Sindone, chiusa in una cassetta rivestita d’argento subì un terribile incendio che fuse un angolo della cassetta e tutti gli angoli della Sindone che era ripiegata e che si trovavano in quell’angolo. Tutta la Sindone non si incenerì per mancanza di ossigeno, ma chi può dire quali alterazioni subì la stoffa racchiusa ad un calore di quasi 1.000 gradi C?
– Le Suore Clarisse che ne curavano la manutenzione erano solite lavarla ogni 10-20 anni con lisciva: può ciò aver alterato l’esito dell’esame?
– Durante i 42 giorni della ostensione a Torino dal 27 agosto all’8 Settembre 1978, dentro la teca che conteneva la Sindone furono immessi, e vi rimasero per tutto quel tempo, circa 300 metri cubi di azoto puro. Può avere anche questo disturbato l’esito dell’esame al C14? E, subito dopo l’ostensione, la Sindone fu sottoposta per 120 ore consecutive al più spietato esame scientifico della storia: fu fotografata ai raggi X e ai raggi ultravioletti, per un totale di 6.000 fotografie ravvicinate, subendo un massiccio bombardamento di radiazioni elettroniche!
Tutto ciò conforta a sperare che l’esame al C14 venga rifatto tenendo conto di tutte le contaminazioni che la santa Sindone ha subìto attraverso due millenni: se l’esame sarà serio, avremo allora – ne siamo certi – una ulteriore prova della sua antichità e autenticità.
PREGHIERA
O signore, che hai lasciato i segni della Tua presenza quaggiù e i pegni evidenti del Tuo amore nella santissima Sindone, che avvolse il Tuo adorabile Corpo dopo la deposizione dalla Croce, per i meriti della Tua Santa Passione e a motivo di questo venerabile lino che servì per la Tua Sepoltura, concedici misericordiosamente, Te ne preghiamo, che nella Resurrezione anche noi possiamo partecipare a quella gloria, nella quale Tu regnerai per tutta l’eternità. Così sia.
Preghiera inserita da Pio XI nel Breve Apostolico del 23 marzo 1934.
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