7 ottobre – Maria Regina del S. Rosario
Questo articolo è stato già letto866 volte!
LA BATTAGLIA DI LEPANTO 7 OTTOBRE 1571
Ecco l’inizio della battaglia di Lepanto attraverso il racconto di un marinaio della nave cristiana “San Teodoro”, narrato da Gianni Granzotto nel libro: “La battaglia di Lepanto”:
“…L’armata cristiana stava ferma sulla sua linea. Il solo movimento ordinato da don Giovanni riguardò le galeazze, che si andarono a schierare un miglio davanti a noi, come isole avanzate. Le galeazze erano sei, e dovevano mettersi a due per due all’innanzi di ciascuno dei nostri corpi, due per l’ala di Barbarigo, due per il centro di don Giovanni, due per l’ala del Doria. Se non che costui, comandato dall’argarsi verso il pieno del golfo, girò fin troppo il bordo allontanandosi al largo più di quanto si credeva opportuno. Per quella mossa si aprì una specie di varco sulla parte destra del nostro schieramento e le due galeazze che dovevano andare a proteggere il corno dei genovesi si trovarono un po’ sperdute nel mezzo del mare.
Ma le altre furono pronte a scatenare tutto l’inferno dei cannoni di cui erano strapiene, immobili in mezzo al mare sotto quel peso come enormi tartarughe galleggianti. Sui turchi che avanzavano a tutta voga, senza più vele ai trinchetti per la caduta del vento, piovvero i colpi ed il fuoco in una terribile tempesta d’improvviso infuriante sul mare tranquillo. Davanti al nostro corpo di navi sparavano le galeazze di Francesco Duodo e di Andrea da Pesaro. Vidi le palle lanciate dal Duodo sfracassare il fanale più grande della Reale dei Turchi, che per altezza dominava il gruppo dei legni nemici avventati all’assalto. Un secondo colpo frantumò la spalla d’una galera vicina, un terzo mandò in pezzi il fasciame di un’altra, che si mise ad imbarcare acqua a fiotti sprofondando nel mare come in una sabbia. Uomini con i turbanti in capo si buttarono a nuoto dagli spalti divelti, tra remi spezzati, frammenti di chiglia, tronconi d’alberi dimezzati che cadevano da altre galere colpite travolgendo soldati e rematori, mentre il fuoco prendeva a divampare su questo e quel bordo illuminando le acque di inverosimili bagliori
Prima della battaglia
Il 5 ottobre la flotta cristiana si fermò nel porto di Viscando, non lontano dal luogo della battaglia di Azio. C’era nebbia e un forte vento. Le galee non potevano prendere il mare.
Un brigantino portò la notizia della caduta di Famagosta (in turco Famagusta; in greco Ammocosthos) e dell’orribile fine inflitta dai musulmani a Marcantonio Bragadin, il senatore veneziano comandante la fortezza.
Il 1° agosto i veneziani si erano arresi con l’assicurazione di poter lasciare l’isola di Cipro. Mustafà Lala Pascià, il comandante turco che aveva perso più di 52.000 uomini nell’assedio, non mantenne la parola. I soldati veneziani furono imprigionati e incatenati ai banchi delle galee turche.
Venerdì 17 agosto Bragadin venne scorticato vivo di fronte ad una folla di musulmani esultanti. La pelle di Bragadin venne riempita di paglia. Il manichino fu innalzato sulla galea di Mustafà Lala Pascià insieme alle teste di Alvise Martinengo e Gianantonio Querini. I macrabri trofei furono poi inviati a Costantinopoli, esposti nelle strade della capitale ottomana ed infine portati nella prigione degli schiavi.
Il comportamento dei musulmani accrebbe la voglia di combattere dei cristiani. I soldati della Lega Santa sapevano che la battaglia era decisiva per la Cristianità. In caso di sconfitta le coste di Italia e Spagna sarebbero rimaste esposte agli attacchi dei musulmani. L’Islam era pronto a colpire il cuore dell’Occidente. Roma era in pericolo.
Lo schieramento della flotta cristiana
Domenica 7 ottobre Giovanni d’Austria fece schierare le proprie navi in formazione serrata. Non più di 150 metri separavano le galee.
Venne costituita una formazione a croce.
Al centro si pose Giovanni d’Austria con 64 galee. La sua nave ammiraglia era la Real. A fianco si pose l’ammiraglia del comandante veneziano Sebastiano Venier, una cui nipote era stata ridotta in schiavitù nell’harem di Costantinopoli. Sull’ammiraglia pontificia era Marcantonio Colonna. Sull’ammiraglia di Savoia il conte Provana di Leynì. Sull’ammiraglia di Genova Ettore Spinola. Due galeazze furono poste davanti al centro della flotta.
L’ala sinistra venne affidata principalmente ai veneziani sotto il comando di Agostino Barbarigo. Al lato più estremo, più esposto ai tentativi di aggiramento, si pose Marcantonio Querini. Davanti alle galee veneziane furono inviate due galeazze al comando di Antonio e Ambrogio Bragadin, parenti del senatore scorticato vivo.
All’ala destra si schierarono galee e combattenti di diverse nazionalità, sotto il comando del genovese Gian Andrea Doria. Erano presenti anche molti volontari tra cui l’italiano Alessandro Farnese, il francese Crillon, l’inglese Sir Thomas Stukeley, l’esiliato Giacomo IV, duca di Naxos. Due galeazze veneziane furono poste davanti al settore sinistro. La retroguardia venne posta sotto il comando di Santa Cruz con tre galee dei Cavalieri di Malta.
Lo schieramento dei Turchi
I Turchi si disposero a mezzaluna. Vennero schierate 274 navi da guerra, di cui 215 galee. I musulmani avevano 750 cannoni. Il centro turco, al comando diretto di Mehmet Alì Pascià, era costituito da 96 galee. Di fronte ai veneziani era Muhammad Saulak, detto anche Maometto Scirocco, governatore dell’Egitto, con 56 galee.
Uluj Alì, il rinnegato Occhiali, con 63 galee e galeotte, era di fronte a Gian Andrea Doria, che a Tripoli era dovuto fuggire di fronte al corsaro.
Una forte riserva, comandata da Amurat Dragut, era dietro la linea delle galee turche.
Mehmet Alì Pascià era a bordo della Sultana, su cui sventolava il vessillo verde su cui era stato scritto 28.900 volte a caratteri d’oro il nome di Allah.
La battaglia di Lepanto
La flotta cristiana riuscì a concentrarsi a Messina alla fine di agosto del 1571. Presto, se si considera la difficoltà che dovettero superarsi; troppo tardi, secondo i più prudenti tra i condottieri cristiani: Requesens, inviato personale di Filippo II, e Gian Andrea Doria consigliavano di limitarsi a un atteggiamento difensivo; nello stesso senso scriveva da Pisa don Garcia de Toledo. “Ma don Giovanni prestò ascolto soltanto ai capi veneziani e a quei capitani spagnuoli della sua cerchia che insistevano per l’azione; e, presa la decisione, si dedicò al compito con l’ardore esclusivo del suo temperamento” (17). In effetti, fu la sua energia, sostenuta dal fascino della sua personalità e dalla naturale attitudine al comando, a soffocare sul nascere riaffioranti contrasti tra capitani e tra equipaggi. Fu la sua volontà a perseguire lo scontro, andando a cercare l’armata nemica.
Furono, poi, il suo coraggio e il suo valore militare a giocare un ruolo molto importante nella battaglia stessa. Così, la flotta cristiana andò a cercare quella turca, la quale, dopo essersi spinta fino a metà Adriatico, era rientrata a Lepanto, per imbarcare nuovi equipaggi e nuovi viveri. La flotta cristiana era composta da duecentootto galee, quella turca da duecentotrenta. Centodieci galee avevano comandanti veneziani, anche se, per la scarsezza di uomini, gli equipaggi erano stati rinforzati con truppe provenienti dagli Stati spagnoli, in specie per il settore degli archibugieri. Trentasei provenivano da Napoli e dalla Sicilia; ventidue da Genova, al comando del Doria; ventitré dagli Stati pontifici e da altri Stati italiani (18); quattordici dalla Spagna in senso stretto e tre da Malta (19).
La superiorità numerica, gli ordino avuti dal sultano e il suo temperamento personale indussero il comandante in capo della flotta turca, Alì, a non sottrarsi al combattimento, pur se nell’ambito dei comandanti turchi non poche voci si erano espresse in senso contrario. Mentre le flotte si avvicinavano fu inalberato sulla galea del comandante in capo dell’armata cristiana (20) lo stendardo della Lega, offerto da san Pio V, che recava in campo cremisi il Crocifisso con, ai piedi, le armi del Pontefice, di Venezia e della Spagna. Don Giovanni e il comandante pontificio, Marcantonio Colonna, imbarcatisi su due piccoli e veloci legni, percorsero tutto lo schieramento, ricordando la natura divina della causa per cui combattevano e che il Crocifisso era il loro vero comandante.
A bordo, i cappellani confessavano e i capitani incitavano; gli equipaggi lanciavano grida di guerra (21). Un contemporaneo ricorda che nelle galee cristiane “tuttavia si toccavano assiduamente gli tamburi e ogni altra sorte di istrumenti”, aggiungendo che esse “vogavano in bellissima ordinanza”, cioè stando molto vicine, in modo da impedire la penetrazione di gruppi di navi nemiche (22). Il mare si calmò improvvisamente, e ciò parve miracoloso agli esperti di mare. La battaglia si accese, dopo che dalle imbarcazioni ammiraglie erano partiti i primi colpi di artiglieria.
Mentre Gian Andrea Doria, a capo dell’ala destra dello schieramento cristiano, era costretto ad allargarsi per evitare la manovra di aggiramento tentata dal corno sinistro dello schieramento turco, comandato da Euldj-Ali (27) la battaglia si decise nel centro. Le artiglierie giocarono un ruolo tutto sommato secondario, anche se la superiorità di fuoco delle sei galeazze veneziane, pesantemente armate, rimorchiate in prima fila, ebbe un peso rilevante nel gettare un sanguinoso disordine nel cuore dello schieramento nemico.
Decisiva fu la superiorità delle fanterie cristiane nella serie dei combattimenti ravvicinati tra singoli gruppi di galee, guidate da capi che “non mancavano di mostrare animo gagliardo e grande” (24). Intanto, “gran parte degli schiavi cristiani che si trovavano sopra l’armata nemica […] facevano ogni sforzo per procacciare il loro scampo e la vittoria dei nostri” (25). Molti furono gli episodi di eroismo: l’equipaggio della galera Fiorenza dell’Ordine di Santo Stefano, tutto ucciso salvo il suo comandante Tommaso de’ Medici e quindici, uomini. Il generale Giustiniani, dell’Ordine di Malta, e il comandante della galera capitana dell’Ordine, fra’ Rinaldo Naro, furono feriti tre volte; quaranta cavalieri di Malta caddero nel combattimento (21).
Morì, tre giorni dopo la battaglia, anche il comandante in seconda veneziano, Agostino Barbarigo, il quale, accorgendosi che ì suoi ordini non erano uditi bene, si scoprì il viso mentre “i nemici più fieramente saettavano; essendogli detto si coprisse […] rispose che minor offesa egli sentirebbe di essere ferito che di non essere udito”, e fu così ferito mortalmente (27).
Del valore di don Giovanni si è detto; va anche ricordato il grande apporto di Marcantonio Colonna e del settantacinquenne comandante veneziano Sebastiano Venier. Le proporzioni della sanguinosa battaglia possono essere riassunte in poche cifre. Se i caduti cristiani furono circa 9 mila, quelli turchi furono 30 mila, e varie altre migliaia quelli catturati. Soltanto trenta navi turche riuscirono a fuggire; delle altre, centodiciassette catturate e divise tra gli Stati membri della Lega e le rimanenti andarono distrutte (28).
La flotta cristiana bloccò l’ingresso del golfo di Lepanto.
I musulmani, obbedendo all’ordine impartito dal sultano Selim II,accettarono la battaglia. Con un rumore assordante iniziarono l’avvicinamento suonando timpani, tamburi, flauti. Il vento era a loro favore.
La flotta cristiana era nel più assoluto silenzio.
Quando le flotte giunsero a tiro di cannone i cristiani ammainarono tutte le loro bandiere e Giovanni innalzò lo stendardo con l’immagine del Redentore crocifisso. Una croce venne levata su ogni galea e i combattenti ricevettero l’assoluzione secondo l’indulgenza concessa da Pio V per la crociata.
Il vento improvvisamente cambiò direzione. Le vele dei Turchi si afflosciarono e quelle dei cristiani si gonfiarono.
Giovanni d’Austria puntò diritto contro la Sultana. Il reggimento di Sardegna diede l’arrembaggio alla nave turca che divenne il campo di battaglia. I musulmani a poppa e i cristiani a prua. Al terzo assalto i sardi arrivarono a poppa. Giovanni venne ferito ad una gamba. Mehmet Alì Pascià venne ucciso da un colpo di archibugio.La Sultana si arrese. Alle due del pomeriggio Giovanni poté riprendere il controllo della flotta.
Muhammad Saulak era riuscito ad aggirare il fianco sinistro. Agostino Barbarigo fu attaccato da otto galee turche contemporaneamente. Barbarigo, ferito ad un occhio da una freccia, dovette cedere il comando a Federico Nani. Sei galee veneziane furono affondate. Muhammad Saulak stava per prevalere. Ma improvvisamente i rematori cristiani si sollevarono dai banchi di schiavitù e con le catene si gettarono sulle scimitarre dei loro aguzzini. I veneziani ripresero il sopravvento. Muhammad Saulak venne ucciso.
All’ala destra Uluj Alì e Gian Andrea Doria manovravano per trovarsi in posizione di vantaggio. Alessandro Farnese con i suoi 200 uomini conquistò una galea turca. Diego di Urbino, comandante della Marquesa, ordinò a Miguel Cervantes di aggirare una galea con una scialuppa. Cervantes fu ferito due volte, al petto e alla mano.
Sia il Doria che Uluj Alì, prima della battaglia, avevano tentato di dissuadere i loro comandanti dal dare battaglia. Nessuno dei due voleva mettere a rischio le proprie navi. Uluj Alì manovrò per aggirare l’ala destra dello schieramento. Doria spostò le sue galee verso destra per fermare i Turchi, lasciando aperto un varco tra il centro e l’ala destra. Giovanni ordinò al Doria di ricompattare lo schieramento, ma Uluj Alì fu veloce a infilarsi nel varco improvvisamente apertosi con le sue galee corsare.
Uluj Alì, con il vento in poppa, aggredì da dietro la Capitana, la nave ammiraglia dei Cavalieri di Malta, al cui comando era Pietro Giustiniani, priore dell’Ordine. I Gerosolimitani sono presenti con tre galere ma numerosi Cavalieri combattono sulle navi spagnole, pontificie, siciliane e toscane. La Capitana di Pietro Giustiniani venne circondata da sette galee. Uluj Alì catturò il vessillo dei Cavalieri di Malta, fece prigioniero Giustiniani, che era stato ferito sette volte, e prese a rimorchio la Capitana.
L’ammiraglio Santa Cruz intervenne con la retroguardia. Il capitano Ojeda, al comando della galea Guzmana, raggiunse la Capitana, l’abbordò e la riconquistò. Uluj Alì fu costretto ad abbandonare la preda. Con una quindicina di galee e di galeotte fuggì, si nascose nelle isole dei dintorni, si impadronì di una lenta galea veneziana, la Bua, e si diresse verso Costantinopoli.
Alle 4 del pomeriggio i Turchi erano stati completamente sconfitti. I pochi superstiti si ritirarono verso l’interno del golfo.
Le perdite dei Turchi
80 galee turche furono affondate. 117 furono catturate. 27 galeotte furono affondate e 13 catturate.
I Turchi persero 30.000 uomini tra morti e feriti. Altri 8.000 furono fatti prigionieri.
Vennero liberati 15.000 cristiani che erano stati ridotti in schiavitù e incatenati ai banchi delle galee.
Le perdite della Lega Santa
I cristiani persero 15 galee, ebbero 7.650 morti e 7.780 feriti.
S. Maria delle Vittorie sull’Islam
Pio V stabilì che il 7 ottobre fosse un giorno festivo consacrato a S. Maria delle Vittorie sull’Islam.
Gregorio XIII trasferì la festa alla prima domenica del mese di ottobre con il nome di Madonna del Rosario.
“ La Madonna del rosario ci ha fatto vincitori”
E’ la domanda che si pone Fernand Braudel, ricordando che una serie di storici, e primo – si potrebbe dire: naturalmente – Voltaire, hanno insistito sul fatto che negli anni successivi la vittoria non fu sfruttata a fondo (29). In effetti riemersero antichi contrasti, mentre molti altri scacchieri impegnavano la Spagna. Nel 1575 Venezia fu fiaccata da una terribile epidemia (30). Nel 1578 don Giovanni d’Austria, che era nei Paesi Bassi a combattere contro i protestanti, morì improvvisamente. Ma si tratta di osservazioni storicamente non corrette, come già ho accennato in qualche osservazione precedente. In realtà bisognerebbe domandarsi, per capire la portata dell’avvenimento, cosa sarebbe successo se la vittoria non ci fosse stata o, peggio, se ci fosse stata una sconfitta.
Non solo tutte le posizioni veneziane nei mari Egeo, Ionio e Adriatico sarebbero cadute, ma la stessa intera Italia, forse anche la Spagna, sarebbero state alla mercé dei turchi (31). Allora comprenderemo la gioia dei popoli cristiani (32) l’entusiasmo dei veneziani all’arrivo della notizia, i festeggiamenti fatti un pò dappertutto. Il Papa, quando ricevette dal nunzio veneziano la notizia della vittoria, proruppe in lacrime e ripeté le parole della Scrittura: “fuit homo missus a Deo cui nomen erat Johannes” (33). Il re Filippo II stava assistendo ai vespri nella cappella del suo palazzo quando entrò l’ambasciatore veneziano, proprio mentre veniva intonato il Magnificat, gridando Vittoria! Vittoria!. Ma il re non volle che si interrompesse la sacra funzione. Solo al termine fece leggere il dispaccio e intonare il Te Deum (34). Segno che si manteneva il senso della esatta gerarchia della storia in una buona prospettiva cattolica.
Certamente, la vittoria era stata ottenuta grazie a “la intelligentissima prudentia de i nostri generali, la bravura e destrezza de i capitani in mandare ad effetto, il valore de’ gentiluomini e soldati nell’essequire”, (35). Ma, più ancora, a ben altre forze, secondo la bella espressione del senato veneto: “Non virtus, non arma, non duces, sed Maria Rosarii victores nos fecit”, “non il valore, non le armi, non i condottieri ma la Madonna del Rosario ci ha fatto vincitori” (36). Del resto, la vittoria di Lepanto era avvenuta nel giorno in cui le confraternite del Rosario facevano tradizionalmente particolari devozioni
- Livio
Lascia un commento
Devi essere connesso per inviare un commento.