Giovanni Paolo II visto da vicino
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Mons. Viviani ha accettato di offrirci una splendida testimonianza del nostro amato, e mai dimenticato, Giovanni Paolo II: “Sono veramente lieto questa sera di poter offrire a tutti voi qui presenti una mia personale testimonianza sulla figura del grande Beato Giovanni Paolo II. Tra i tanti ricordi dei dodici anni passati accanto a lui, nel mio servizio di cerimoniere pontificio, ho scelto alcuni aspetti caratteristici di Karol Wojtyła, che mi piace evidenziare. Molte altre cose appartengono a quell’interiorità, a quella personale esperienza, che non è sempre immediatamente comunicabile agli altri. Ma lo faccio volentieri perché anche questo diventa un annuncio di Vangelo, una testimonianza di Chiesa.
UN UOMO CHE HA LOTTATO CON DIO
“Ha combattuto la buona battaglia, ha terminato la corsa, ha conservato la fede. Ora gli resta soltanto la corona di giustizia che il Signore, il giudice giusto, gli consegnerà in quel giorno” (cfr 2Tim 4, 7 – 8). Le parole dell’anziano apostolo Paolo al giovane Vescovo Timoteo, ben si adattano alla figura imponente e decisiva nella storia e per l’intera umanità di Giovanni Paolo II, che il 2 aprile 2005 è scomparso al nostro sguardo e che lo scorso 1° maggio 2011, domenica della Divina Misericordia, è stato proclamato Beato dal suo Successore Papa Benedetto XVI.
In questi tempi, dopo la sua Beatificazione come dopo la sua morte, se un’immagine mi torna in mente, guardando alla sua vita e alla conclusione del suo cammino terreno, vissuto per la Chiesa, che ha guidato per quasi 28 lunghi e generosi anni, la figura simbolica è quella di Giacobbe, il Patriarca che terminò la sua lunga vita in Egitto, lontano dalla sua patria (nel suo caso l’amata terra di Polonia), ma nell’abbraccio di quella sua famiglia, di quel suo popolo per il quale aveva tanto faticato. Soprattutto ricordo quella splendida e misteriosa pagina del libro della Genesi, al capitolo 32, dove si narra di una lotta tra il Patriarca e Dio stesso, che gli dichiara: “Non ti chiamerai più Giacobbe ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”.
Si è parlato di Karol Wojtyła come di un nuovo Abramo, venuto da un paese lontano e iniziatore di una nuova generazione di giovani; come di un novello Mosè, che ha traghettato il popolo di Dio da un millennio all’altro. Ma a me piace di più ripensare a lui con la figura di Giacobbe, l’uomo che, rimasto solo nella notte, ha lottato con Dio! Sì, “l’atleta di Dio”, come era stato chiamato dai giornalisti nei primi anni di un pontificato, a dir poco battagliero, ha lottato fino in fondo, anche nella sua lunga agonia, appunto l’ultimo agone, l’estremo combattimento…..
…… Come Giacobbe ha lottato con Dio con tutte le sue forze, per tutta la notte, fino all’aurora. Non contro Dio, ma insieme con Dio per l’uomo e insieme con l’uomo, quasi per strappare a Dio quei segni di misericordia che sembravano, agli occhi di un mondo secolarizzato, devastato da dittature disumane e dominato da ideologie atee, ormai perduti, smarriti, dimenticati. Ha lottato con Dio come Giacobbe e ne è rimasto colpito, proprio come il Patriarca, nell’articolazione del femore! Da quella fine di aprile del 1994 quando il suo cammino si era fatto più faticoso, ma non incerto, più doloroso, ma mai indomito, e se si vuole ancor più umano, perché segnato proprio lì dove appariva più vigoroso. Ha lottato con Dio con una preghiera che a volte sembrava giungere fino allo spasmo di un corpo che si contorceva nel dolore e nell’implorazione.
Quello che mi ha sempre colpito di Giovanni Paolo II era il momento intimo e privato del suo sostare in silenzio e in preghiera. Il Papa stava spesso a lungo in ginocchio. Era l’atteggiamento tipico di Karol Wojtyła. La sua stessa conformazione fisica sembrava fatta per stare in ginocchio; o forse lui stesso l’aveva plasmata per questa singolare postura. Quante volte nel corso dei viaggi si è visto più d’uno allontanarsi perché non ce la faceva più a stare in ginocchio, mentre Giovanni Paolo II, mai stanco in quella posizione, rimaneva a lungo in quell’atteggiamento, insieme fisico e spirituale davanti al tabernacolo. Un corpo che vibrava in preghiera dalle ginocchia, ben piantate per terra, alle mani, strette e rivolte verso il Cielo.
Ha annunciato senza stancarsi la verità di Dio all’umanità del nostro tempo con gli scritti (ben 14 Encicliche oltre a numerose Lettere Apostoliche, Esortazioni, Messaggi, ecc.) e con la parola in innumerevoli udienze e celebrazioni liturgiche nella Città del Vaticano e a Roma, fino a restarne muto. Ha camminato senza sosta sui sentieri del mondo nei suoi 104 viaggi internazionali (543 giorni in 129 nazioni; 1.162.615 chilometri percorsi), nei 146 viaggi in Italia, in oltre 300 parrocchie romane, fino a farsi condurre dagli altri, lui condottiero nato.
Giovanni Paolo II “hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai vinto!”: per questo gli viene dato un nome nuovo (Ap 2, 17), non di quelli inventati dai giornalisti per fare scalpore, ma quello che Dio solo conosce, nel suo paradiso. Ora lassù Karol, ormai Beato, torna a correre, a gridare, a combattere con Dio per noi, nella sua eternità!
UN UOMO DI DIO
Può sembrare una banalità, detta oggi, ma Giovanni Paolo II è stato anzitutto un uomo di Dio; una persona sempre molto attenta a rimanere in comunione di preghiera con Dio pur non ignorando la realtà umana che gli stava attorno. Soprattutto nei periodi in cui si muoveva con fatica a causa dell’incidente e della malattia, ha mantenuto sempre la sua volontà di andare incontro alla gente e il suo desiderio profondo di intimità con il Signore: due moti continui del suo animo e nel suo comportamento e stile di vita. Ma soprattutto nei momenti prima e dopo le celebrazioni o gli incontri egli cercava il silenzio; non il vuoto ma quella distensione di animo che era per lui preghiera, riflessione su quanto andava compiendo in nome di Dio.
Al Santo Padre, prima di ogni celebrazione venivano consegnati i testi liturgici ed evidenziati i segni particolari che in esse si sarebbero compiuti. Molto per tempo al Papa venivano segnalati i testi biblici (normalmente quelli che la liturgia assegna a quella determinata celebrazione); qualche volta lui stesso li richiedeva per preparare l’omelia. Ricordo che all’incontro con i giovani a Trento nel 1995 chiese loro se si stavano preparando all’incontro europeo di Loreto; io – disse – mi sto preparando. Eravamo al 30 aprile, l’incontro a Loreto era previsto in settembre. Era vero! Proprio qualche giorno prima il suo Segretario ci aveva chiesto a nome del Papa i testi biblici previsti per quella celebrazione: il Papa si voleva preparare, voleva preparare per tempo nella riflessione e nella preghiera la sua omelia per i giovani!
Giovanni Paolo II celebrava in modo molto calmo, mai in fretta; sempre con grande raccoglimento e, direi, con gravità. Non dava mai l’impressione di aver fretta, anzi. Era sempre molto concentrato sull’azione sacra che stava compiendo, anche se attorno a lui c’è movimento o rumore. Era molto attento ai segni sacri, alle parole da pronunciare, ai testi da cantare; spesso desiderava cantare le parti più solenni della liturgia, magari anche solo nelle conclusioni delle orazioni perché l’assemblea rispondesse nel canto. Sapeva anche aiutare l’assemblea a concentrare l’attenzione sul mistero che si celebrava più che sulla sua stessa persona.
A Bologna per il Congresso Eucaristico Nazionale del 1997 provoca i giovani con la sua testimonianza personale, dicendo cosa c’è al centro della sua vita: “Vorrei farvi una confidenza: con il passare del tempo la cosa più importante e più bella per me rimane il fatto di essere da oltre 50 anni sacerdote, perché ogni giorno mi è possibile celebrare la Santa Messa. L’Eucaristia è il segreto della mia giornata: Essa dà forza e senso ad ogni mia attività al servizio della Chiesa e del mondo intero”. Una delle dimensioni essenziali del ministero del Papa è proprio quella del celebrare, proprio perché anche il Papa è sempre e prima di tutto un sacerdote, un sacerdote che celebra i divini misteri. Per la persona di Giovanni Paolo II il pregare e il celebrare erano qualcosa di tipico, di specifico, che non tralasciava mai, al quale dava sempre la precedenza. Nei viaggi in Italia e all’estero lo spazio maggiore del tempo è sempre stato dedicato alle celebrazioni liturgiche nei luoghi più diversi e nelle modalità rituali più varie.
E il Papa amava celebrare, sapeva celebrare con tutta la sua persona! Aiutava l’assemblea ad entrare nel “mistero”. Non lo appiattiva, non lo sviliva, lo esaltava e lo rendeva attuale e vero per chi era presente, anche se fisicamente o spiritualmente lontano dall’altare. E così ancora a Bologna, quando gli battono le mani, durante l’omelia, quasi a precisare come stanno le cose, Giovanni Paolo II disse chiaramente: “Durante il Congresso Eucaristico è Lui, il Cristo, che merita un applauso fortissimo!”. Così Giovanni Paolo II celebrava i misteri della salvezza e la vita di tutti i giorni; portava la vita nella liturgia e la liturgia nella vita. Si immedesimava nel mistero di Cristo e si immergeva nella vita degli uomini e delle donne del nostro tempo con uno spessore ed una profondità che destavano sempre sorpresa, ammirazione e volontà di imitazione.
Per quando riguarda il suo modo di pregare basta andare a leggere le pagine che egli ha dedicato a questo aspetto della sua vita nel libro “Varcare la soglia della speranza”. Quando lo vedevo pregare da solo, magari prima o dopo le celebrazioni, mi ritornava alla mente l’espressione attribuita ad un suo compagno di studi a Roma: “Wojtyła, prega da fare invidia”. Nella vita del Papa erano presenti le due dimensioni della preghiera quella personale e quella comunitaria, in particolare liturgica, che si alimentano e si arricchiscono a vicenda. In lui appariva veramente il grande sacerdote che prega ed è guida alla preghiera. In una sua testimonianza del 27 ottobre 1995 Giovanni Paolo II ci insegna anche a pregare come faceva lui: scrivere su un quaderno i nomi delle persone che incontriamo e ogni tanto rileggere questi nomi davanti al Signore, per presentarli con semplicità e amore a lui.
Certo il Santo Padre soffriva nei tempi in cui non poter svolgere il suo ministero di Pastore in modo pieno come era solito fare; ma non ha mai sprecato il suo tempo e neppure ha perso la speranza, anche se in modo più rallentato, di continuare a predicare il Vangelo ovunque con coraggio e passione. Certamente il Papa non temeva le folle, anzi andava loro incontro con grande desiderio di trovarsi tra la gente per annunciare e ricordare la presenza del Cristo Salvatore di tutta l’umanità. Neppure si esaltava; più facilmente si commuoveva e come il Signore Gesù sentiva che sono come pecore senza pastore che hanno bisogno di un punto di riferimento sicuro; e il successore di Pietro ce l’ha: è Cristo la roccia. Nel suo incontro con la gente il Santo Padre sapeva cogliere la preoccupazione o la sofferenza del singolo che gli stringeva la mano; sapeva segnalare il peccato e la grazia che ogni folla porta con se come espressione dell’umanità e della Chiesa e come realtà di ogni singolo individuo. Con il suo sguardo sapeva abbracciare un’immensa e cosmopolita assemblea e sapeva avvicinarsi al cuore di chi guardava a lui con speranza, in ricerca, con gioia, con desiderio di bene.
Lo stile del Papa si rivelava soprattutto nelle visite alle Parrocchie di Roma; in quelle visite appariva tutta la sua storia di sacerdote e di Vescovo, consapevole del valore della parrocchia, delle sue iniziative e della sua realtà fatta di gente normale: soprattutto bambini, giovani, sofferenti, anziani, famiglie, uomini e donne dediti al loro lavoro; in una parola il Papa sapeva essere attento a quella tipica dimensione parrocchiale che è fatta di persone, suddivise in fasce di età e gruppi, ma tutti formanti la comunità. Egli rivelava non tanto di aver lui bisogno della gente, ma di voler offrire con la sua presenza e con la sua persona la risposta ai tanti bisogni della gente. Come Pietro ha continuato a ricordare che il Cristo, lui solo ha parole di vita, di vita eterna.
Le visite pastorali, i viaggi in Italia e nel mondo sono stati per moltissime persone l’occasione di una presenza da accogliere, da sentire, da riconoscere. La sua presenza era la riproposta di un messaggio che già portiamo nel cuore; lui veniva accanto ad ogni persona, sulle loro strade, come il Risorto ad Emmaus, perché si riaprissero gli occhi, perché ci lasciassero riscaldare il cuore, perché sapessero, se necessario, ritornare alla Chiesa e sentirsi parte di essa. Penso soprattutto ai bambini, ai ragazzi e ai giovani che avrebbero ricordato quel momento per tutta la vita e lo racconteranno ancora come una delle cose più significative della loro memoria.
Quando per le celebrazioni precedevo il Papa mi hanno sempre colpito gli sguardi della gente in attesa del suo passaggio. Ma quando viaggiavo su qualche macchina dopo di lui (ricordo a Lecce, mio primo viaggio in Italia mi sono commosso) mi veniva da dire dentro di me: ho visto il Papa negli occhi delle gente. Negli occhi ingenui e innocenti di un bambino; negli occhi gonfi di lacrime di una mamma; negli occhi pensierosi e quasi spenti di un anziano; negli occhi ancora increduli e pieni di interrogativi di un giovane, in molti occhi raggianti di gioia: ho visto il Papa. E in quei i cuori certo è rimasto qualche cosa; forse non le parole ma certo il ricordo di un volto, il segno di una presenza: colui che veniva a confermare i fratelli nella fede e che a volte si accontentava magari solo di riaccendere, di provocare, di interrogarsi su quella fede.
Ricordo particolarmente il viaggio in Croazia nel mese di ottobre 1998. Non ho mai visto niente di simile. In questi anni ho incontrato tante folle per le celebrazioni con il Santo Padre. Ma quella volta sulle vie della Croazia la cosa è stata straordinaria. Chilometri e chilometri di gente assiepata lungo le strade a salutare il Papa, ad esprimergli la simpatia di chi si sente dello stesso ceppo, ad offrirgli il saluto di chi gli è riconoscente, a fargli sentire un affetto per tanti anni tenuto rinchiuso “oltre cortina”.
Viene in mente la folla dell’Apocalisse, che nessuno poteva contare; quella gente con le palme nelle mani, come a Gerusalemme in quell’ingresso, misterioso e vivace, che riviviamo ogni anno all’inizio della settimana santa. Quasi come una memoria, quasi come un annuncio della venuta e del ritorno di Cristo. Sì, posso affermare di aver visto tante volte il Papa negli occhi della gente. È una sensazione strana, particolare, ma vera e interessante: guardare i volti della gente immediatamente dopo che il loro sguardo ha incrociato quello del Papa. C’è chi piange, chi sorride, chi rimane sorpreso o pensieroso; chi sprizza felicità e gioia e chi chiude gli occhi, quasi per non perdere quella “visione” e conservarla nel cuore. In quegli occhi resta un immagine, una figura, una presenza.
UN UOMO CHE HA CAMMINATO SUI MONTI
Ricordo sempre con intima commozione i miei 12 anni di servizio al Santo Padre Giovanni Paolo II. Le tante Messe del martedì, di buon ora alle 7 nella cappella “Redemptoris Mater”, quelle nelle parrocchie romane alla domenica mattina, le innumerevoli celebrazioni nella basilica vaticana e in Piazza San Pietro, quelle nelle diverse basiliche e chiese di Roma, i viaggi in Italia e quelli in diverse parti del mondo. Quante volte guardandomi, con quegli occhi che ti scrutano nel profondo, rispondendo al mio saluto nelle più svariate sagrestie il Papa scherzando mi chiamava: “Adamello!”.
Mi confidava allora il suo Segretario che quei due giorni (lunedì 16 e martedì 17 luglio 1984) in questa nostra regione, al rifugio delle Lobbie nel gruppo dell’Adamello, erano sempre nella memoria e nel cuore del Papa, poiché erano stati la prima vera “vacanza” dall’inizio del Pontificato. Più volte il Papa si era recato “di nascosto” sulle montagne attorno a Roma, sia in estate che in inverno, magari partendo in modo più riservato da Castelgandolfo. Ma erano sempre sortite di poche ore, al massimo di una giornata, di solito il martedì. Quante volte al mercoledì mattina si guardava sorridenti al volto del Papa, che non poteva celare una simpatica abbronzatura, frutto della gita “fuori porta” del giorno prima.
Solo nell’estate 1987, infatti, Giovanni Paolo II cominciò a trascorrere pubblicamente alcuni giorni di distensione in montagna a Lorenzago di Cadore (6 volte negli anni 1987, 1988, 1992, 1993, 1996 e 1998) e a Les Combes in Val d’Aosta (10 volte negli anni 1989, 1990, 1991, 1994, 1995, 1997, 1999, 2000, 2001 e 2004). Al Passo delle Lobbie di fronte al Pian di Neve sarebbe poi tornato nell’estate del 1988 (sabato 16 luglio), per celebrare la Santa Messa sull’altare di granito, proprio venendo da Lorenzago.
Più volte in occasione dei suoi viaggi internazionali il Santo Padre è tornato per qualche ora “su pei monti”. Io ricordo personalmente una breve escursione sui Monti Tatra, in occasione del viaggio in Slovacchia. Era il 3 luglio 1995 nei pressi di Poprad proprio ai confini con la sua terra natale, la regione di Wadowice e di Cracovia. Hanno fatto il giro del mondo le foto che lo ritraggono nelle passeggiate sulle montagne d’Europa e d’America: in Spagna nel 1989 nella zona di Santiago de Compostela, negli Stati Uniti d’America, sulle montagne rocciose del Colorado vicino a Denver nel 1993, e più volte nella sua amata patria, la Polonia (in particolare sui monti di Zakopane nel 1997). Anche quando era ormai immobilizzato si faceva portare in alto; ricordo un luogo suggestivo e isolato in val d’Aosta, quasi sull’orlo di un precipizio da cui si godeva una vista meravigliosa; lì rimaneva in silenzio per lungo tempo, solo e assorto. Solo? No certamente con Dio!
La montagna, ogni montagna, è sempre stata nel cuore di questo Pontefice che per 27 anni si è incamminato sulle vie degli uomini per portare a tutti l’annuncio di Cristo. Quanto si addicono a lui le parole del profeta: “Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi che annunzia la pace, messaggero di bene che annunzia la salvezza” (Is 52, 7). Ma da dove gli veniva questa “passione”, questo amore per la montagna? Certamente dalla sua esperienza personale, dalla sua famiglia, dal suo paese natale, dalla diocesi di Cracovia, che è diocesi che comprende paesi di gente di montagna. E ancora dai suoi anni giovanili di studente, di lavoratore, di seminarista e di sacerdote impegnato con i giovani universitari.
Ma c’è qualcosa di più! La montagna era per Giovanni Paolo II quello che essa era per Gesù di Nazareth. Ripensiamo un momento ai Vangeli da questo punto di vista. Quante volte gli evangelisti testimoniano la predilezione di Gesù per la montagna. I monti hanno un significato speciale in tutta la vita di Gesù. Ancor in grembo di Maria va in fretta verso le montagne di Giuda. Quante notti scappava letteralmente sui monti attorno al lago di Genesaret per rimanere solo in preghiera. Su quei monti ha chiamato a sé i Dodici, perché stessero con lui e per mandarli a predicare la buon notizia del Regno. Come dimenticare le sue parole più belle, ancor oggi ricordate col nome di “Discorso della Montagna” con la proclamazione delle Beatitudini, pronunciate sulle pendici dei colli di Galilea? E ancora la sua Trasfigurazione sul Monte Tabor, la sua morte sul Monte Calvario e infine la sua Ascensione al cielo dal Monte degli Ulivi.
Chi va oggi pellegrino in Terra Santa rimane un po’ sconcertato da quei poveri monti, solo colline, poco più o poco meno. Ma sullo sfondo in lontananza ecco i grandi monti cantati dai salmisti e contemplati nella loro altezza e nella lucentezza delle loro nevi. Così il monte Oreb, la montagna di Elia, il profeta contemplativo e strenuo difensore dell’unico Dio d’Israele, che dal deserto compie il cammino di quaranta giorni per incontrarsi con Dio (1 Re 19). Il luogo della vicinanza a Dio e dell’incontro con Dio, come lo fu per Mosè sul Sinai ed anche per i grandi patriarchi dell’Antico Testamento.
È qui, in questa tormentata regione del medio oriente, che era nata e affondava le sue radici la spiritualità del Papa polacco, quella che ha ispirato particolarmente i grandi monaci eremiti, iniziatori dell’ordine carmelitano al quale Giovanni Paolo II era tanto legato, fin dall’inizio della sua gioventù. La sua era, appunto, la spiritualità del Monte Carmelo, dalla quale ha avuto origine anche quella devozione tanto sentita anche nei nostri paesi e nelle nostre valli alla Beata Vergine del Monte Carmelo, detta popolarmente Madonna del Carmine. In particolare egli l’ha attinta dal testo di San Giovanni della Croce, il mistico carmelitano del 1500: “La salita al Monte Carmelo”.
Il Papa stesso nel suo libro autobiografico “Dono e mistero” rivelava quanto è stata importante per lui la spiritualità carmelitana fin dalla sua infanzia e per tutto il periodo della giovinezza. Sia a Wadowice che a Cracovia venne formandosi in lui la devozione per lo scapolare della Madonna del Carmine: “Anch’io lo ricevetti – scriveva Giovanni Paolo II -, credo all’età di dieci anni, e lo porto tutt’ora”. Il Papa stesso riconosceva che la sua spiritualità deve molto ad un laico credente impegnato nella preghiera e nella catechesi per i ragazzi, Jan Tyranowski, che lo introdusse nella lettura delle opere della spiritualità carmelitana di Santa Teresa d’Avila e di San Giovanni della Croce. E inoltre Karol Wojtyła confessava: “Per un certo periodo presi anche in considerazione la possibilità di entrare nel Carmelo”.
Ora che Giovanni Paolo II è Beato mi appare come un’anziana guida alpina che alza gli occhi verso i monti, a ricordare tante vie percorse, tante persone incontrate, tante esperienze vissute, pericoli e gioie, incertezze e soddisfazioni, nella certezza, come canta il salmista, che dà li viene la salvezza: “Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto? Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra” (Sal 120). Lui è giunto a quel traguardo che riguarda tutti noi al termine del cammino di questa vita, come dice la bella preghiera propria della celebrazione 16 luglio, memoria della Madonna del Monte Carmelo: “fa che giungiamo felicemente al tuo santo monte che è il Cristo Gesù, nostro Signore”. Ecco la spiritualità del Papa montanaro: ogni montagna gli ricordava il Cristo, un amico da non dimenticare, una vetta da conquistare, una meta da raggiungere. Egli ora l’ha raggiunta e ci guarda dal Cielo!
UN UOMO CHE HA CANTATO LA GLORIA DI DIO
Vorrei ricordare ancora questa sera Giovanni Paolo II anche come un Papa che amava il canto, che amava cantare. Lo ricordo durante il Viaggio negli Stati Uniti d’America nel 1995. Il momento più suggestivo fu durante l’omelia a Central Park, dove gli scoiattoli anche durante la Messa potevano correre liberi e incuriositi. Ad un certo punto, parlando sul tema dell’incarnazione del Figlio di Dio, il Papa si ferma e intona un canto natalizio polacco. Tutta l’assemblea, nella quale era presente la vasta colonia di immigrati di origine polacca, è meravigliata e sembra quasi che la nebbia, che avvolgeva la spianata, si diradi in un clima di grande serenità. Al termine dell’omelia l’assemblea spontaneamente gli risponde con il canto in lingua inglese dello Stille Nacht.
Al Papa polacco piaceva cantare sia i testi delle celebrazioni liturgiche (soprattutto i prefazi in latino), sia i canti tradizionali quelli di montagna, ma soprattutto religiosi in special modo quelli natalizi, della sua amata patria. Li conosceva a memoria e non si stancava mai di cantarli lui stesso. Tante volte, anche se magari sul messale era indicato di proclamare, lui cantava: una finale di orazione, un “Per Cristo”, un “Mistero della fede”; e qualche volta nelle parrocchie romane metteva in difficoltà il coro e l’assemblea. Gli piaceva anche ascoltare. Ricordo in una parrocchia romana, quando al termine della Messa domenicale si fermò assorto ad ascoltare un canto. Ero solo vicino a lui e il suo Segretario mi fece cenno che era ora di tornare in sacrestia. In cuor mio – conoscendo bene il Papa – sapevo che dovevo attendere, ma vista l’insistenza mi avvicinai al Santo Padre gli dissi “Santità, possiamo andare”. E lui – come mi aspettavo – rispose perentorio: “Un momento!”.
Mi torna alla mente anche quanto accaduto la sera dell’ultimo giorno, al termine del viaggio in Bulgaria del 2002 nell’incontro con i giovani, prima del rientro a Roma. Gli organizzatori e i responsabili fremevano; eravamo già più di un’ora in ritardo. I giovani cominciarono a cantare un canto religioso polacco. Il Papa che li ascoltava attento si era poi unito a loro. Alla terza strofa i giovani si fermarono e lui proseguì con altre quattro strofe tra la meraviglia e il silenzio di tutti e quindi scoppiò l’applauso. Così con i giovani a Trento alla fine del mese di aprile del 1995 scherzava divertito e, riferendosi ai canti dei vari movimenti, diceva: “Io conosco già i vostri canti. Possiamo dire conosco le specialità delle varie cucine…”. E come in altre occasioni chiedeva ai giovani di cantare, di cantare tutti insieme, secondo la bella tradizione giovanile cattolica. Anche al rifugio delle Lobbie sull’Adamello i pochi testimoni di quelle due giornate d’estate sulla neve ricordano il suo incoraggiamento e la sua attenzione all’esecuzione dei nostri suggestivi canti alpini.
L’attuale Papa Benedetto XVI, grande estimatore e acuto conoscitore della musica sacra e classica, ci avverte che: “La musica, elevando l’anima alla contemplazione, ci aiuta a cogliere anche le sfumature più intime del genio umano, in cui si riflette qualcosa della bellezza senza confronti del Creatore dell’universo” (21 aprile 2006). Lo vogliamo fare ora anche noi guardando al Papa Giovanni Paolo II e immaginandolo ormai partecipe del coro e del canto degli Angeli e dei Santi nell’eternità beata. Ci uniamo quindi questa sera in qualche modo a questa armonia del Cielo, come scrisse lo stesso nuovo Beato nella sua opera poetica intitolata Trittico Romano, parlando di noi, dei cristiani che “…cantano l’inno di ringraziamento, un Magnificat dell’intimo umano ed è allora che sentono profondamente che proprio in Lui – in Dio – viviamo, ci muoviamo ed esistiamo. Proprio in Lui! È Lui che ci permette di partecipare a questa bellezza che aveva ispirato in loro”.
Anche nella voce, sua grande prerogativa, come nella forza fisica del camminare, Giovanni Paolo II è stato colpito nell’ultimo periodo della sua vita. Il Signore lo ha spogliato di tutto per far emergere, ancora una volta di più, un Totus tuus, di completo abbandono nelle mani di Dio, da cui tutto aveva ricevuto e che a lui aveva dedicato e consacrato con tutto se stesso.
UN UOMO COME NOI
Rievocare la presenza di una persona eccezionale, quale fu il Santo Padre Giovanni Paolo II, porta a ricordare parole ed eventi che vengono evocati nella memoria e nel cuore di ciascuno di noi. Per parte mia ho avuto la grazia e il dono di condividere da vicino, per oltre dodici anni, alcuni di questi momenti nei viaggi in Italia e all’estero, nelle celebrazioni nelle basiliche e nelle parrocchie romane – penso in modo speciale all’impegno del grande giubileo dell’anno santo del 2000 – fino al momento finale dei 27 anni di Pontificato, quella sera del 2 aprile 2005.
Giovanni Paolo amava anche saper sorridere quando poteva cogliere le occasioni di una parola, di un ricordo di una situazione. Lo ricordo ridere fino alle lacrime al pranzo offerto a noi Cerimonieri dopo la conclusione delle celebrazioni per l’Anno Santo del 2000, al racconto vivace e pittoresco dell’avventura di un parroco romano alle prese con dei poveri ladri costretti e minacciati dall’energico sacerdote con tanta di pistola a chiamare loro stessi al telefono i carabinieri dicendo: “Semo li ladri!”.
Non dimenticherò mai quello che accadde al momento dell’offertorio della Messa, che il Papa celebrava a Saint’Anne d’Auray (nella diocesi di Vannes, in Francia nel 1996). Ho provato un momento di imbarazzo e di panico perché il Papa per ben due volte mi guarda e a stento trattiene un sorriso: siamo al momento dell’incenso e al momento del lavabo. Cerco di capire cosa ho combinato o se ho la veste fuori posto. Ma l’esame di coscienza in quel momento non mi offre materia! Al termine della Messa Sagrestia il Papa mi fa un cenno, mi chiama e mi dice: “Lei vuole sapere perché il Papa rideva”. Io mi schermisco. E lui mi dice allora di aver visto alle mie spalle uno dei Prelati del Seguito che in quel momento della celebrazione dormiva beatamente. Non era una novità; e il Papa dice: “Ho visto che per la prima volta…”. Sì il Papa sapeva anche sorridere di tante piccole realtà umane fragili e ridicole.
Ricordo ancora durante la Veglia Pasquale in San Pietro quando un giovane catecumeno coreano fece un inchino così profondo da finire con la testa nell’acqua della vasca battesimale: quasi un “auto-Battesimo”! Il Papa non seppe trattenersi, ma neppure il diacono che, piuttosto voluminoso cominciò a far traballare la vasca con l’acqua che sembrava un mare in tempesta… Ricordo un’altra volta il Papa che sorrideva divertito: in un’improvvisata sacrestia allestita in una città di un paese dell’Est ad una parete era appeso un quadro, un’antica stampa raffigurante una storica battaglia in cui i polacchi avevano perso. Il Papa osserva e sorride: lo avranno fatto apposta o per caso?
Per rivelare lo stile “familiare” del Santo Padre posso ricordare quanto mi è accaduto dopo la Messa di Mezzanotte del Natale del 1994; accostandomi a fargli gli auguri ho rivolto a lui l’augurio in lingua polacca ed egli sorridendo ha cominciato a rispondermi in polacco divertito della mia espressione imbarazzata, tipica di chi non capisce, per continuare poi in italiano ringraziando e contraccambiando l’augurio. Non posso poi dimenticare “l’incidente” della Notte di Natale di qualche anno dopo, quando al canto del Gloria della Messa della Notte al Papa cadde l’apparecchio acustico; in diretta mondo visione dovetti infilarglielo nell’orecchio su sua esplicita richiesta, temendo di finire su … “Striscia la notizia” con un dito nell’orecchio del Papa!
UN UOMO CHE CI HA INDICATO CRISTO, IL REDENTORE
Un grande testimone del credere in Cristo e del donarsi totalmente (Totus tuus) è stato certamente il Papa Giovanni Paolo II, che ricordiamo in quest’anno della sua Beatificazione. Come diceva l’attuale Pontefice Benedetto XVI nella Messa del 29 marzo 2010: “Tutta la vita del Venerabile Giovanni Paolo II si è svolta nel segno di questa carità, della capacità di donarsi in modo generoso, senza riserve, senza misura, senza calcolo. Ciò che lo muoveva era l’amore verso Cristo, a cui aveva consacrato la vita, un amore sovrabbondante e incondizionato. E proprio perché si è avvicinato sempre più a Dio nell’amore, egli ha potuto farsi compagno di viaggio per l’uomo di oggi, spargendo nel mondo il profumo dell’Amore di Dio.
Chi ha avuto la gioia di conoscerlo e frequentarlo, ha potuto toccare con mano quanto viva fosse in lui la certezza “di contemplare la bontà del Signore nella terra dei viventi”; certezza che lo ha accompagnato nel corso della sua esistenza e che, in modo particolare, si è manifestata durante l’ultimo periodo del suo pellegrinaggio su questa terra: la progressiva debolezza fisica, infatti, non ha mai intaccato la sua fede rocciosa, la sua luminosa speranza, la sua fervente carità. Si è lasciato consumare per Cristo, per la Chiesa, per il mondo intero: la sua è stata una sofferenza vissuta fino all’ultimo per amore e con amore”.
A lui, a Giovanni Paolo II, era cara la parola Redentore per designare Gesù Cristo. Nel Palazzo Apostolico in Vaticano, oltre la cappella privata nell’appartamento alla terza loggia, ci sono due cappelle famose alla I loggia: la Sistina (rinomata e che si visita nel giro dei Musei Vaticani) e la Paolina (recentemente restaurata); ma ce n’è una terza che era molto amata da Giovanni Paolo II alla II loggia, dove ogni martedì celebrava la Santa Messa per qualche gruppo numeroso. In essa ogni venerdì di Avvento e di Quaresima il Papa e i suoi collaboratori ascoltano il Predicatore della Casa Pontificia, il noto P. Raniero Cantalamessa, e lì si fanno gli esercizi spirituali la I settimana di Quaresima. Al Papa Giovanni Paolo II però non piaceva il nome di quella Cappella (chiamata allora Cappella Matilde, a ricordare la contessa di Canossa dei tempi di papa Gregorio VII e dell’imperatore Enrico IV) e nell’anno mariano 1987 la volle chiamare cappella Redemptoris Mater, la cappella di Maria, Madre del Redentore.
Questo Papa, tanto devoto alla Madonna, ci ricorda che la grandezza della Beata Vergine sta nel aver accolto il Figlio di Dio fatto uomo; nell’Incarnazione egli è diventato pienamente il Redentore dell’uomo. Ed è interessante notare come ritorna spesso anche in molti titoli dei suoi scritti, questa parola, questo termine Redentore che piaceva a Giovanni Paolo II. La sua prima e grande enciclica Redemptor Hominis (1979), che presenta la figura di Cristo, unico Redentore dell’uomo, centro del cosmo e della storia, fattosi uomo come noi per rivelare la vera immagine dell’uomo. Ma anche quella sulla Madonna Redemptoris Mater (1987), eco dell’antica antifona Alma Redemptoris Mater. E ancora l’esortazione apostolica su San Giuseppe, definito Redemptoris Custos (1989), il Custode del Redentore, alla cui premurosa custodia furono affidati “gli inizi della nostra redenzione” (MR Colletta). E l’enciclica sulla permanente validità del mandato missionario della Chiesa che continua l’opera di Cristo, Redemptoris Missio (1990), la Missione del Redentore.
Al centro c’è sempre lui il Cristo Redentore, come il Papa stesso ci ricordava fin dall’inizio del suo Pontificato, quando disse le memorabili e indimenticabili parole: “Non abbiate paura di accogliere Cristo e di accettare la sua potestà! Aiutate il Papa e tutti quanti vogliono servire Cristo e, con la potestà di Cristo, servire l’uomo e l’umanità intera! Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa! Oggi così spesso l’uomo non sa cosa si porta dentro, nel profondo del suo animo, del suo cuore. Così spesso è incerto del senso della sua vita su questa terra. È invaso dal dubbio che si tramuta in disperazione. Permettete, quindi – vi prego, vi imploro con umiltà e con fiducia – permettete a Cristo di parlare all’uomo. Solo lui ha parole di vita, sì! di vita eterna”. Ecco chi è il Redentore, il Redentore dell’uomo! … per Giovanni Paolo II e per noi.
Anche noi siamo chiamati nella nostra vita ad aprire, a spalancare le porte al Redentore – secondo l’invito del Giubileo dell’anno 2000 – e questo si attua quando ci prendiamo un po’ di tempo per pregare, per ascoltare la Parola di Dio. Ma noi dobbiamo riconoscere e ad accogliere il Redentore anche nella persona di chi si fa accanto a noi chiedendoci un gesto di gratuità, di misericordia, di apertura per un futuro di speranza e di libertà vera e piena per tutti come ha fatto il Beato Giovanni Paolo. Ogni giorno egli ha accolto persone di tutto il mondo alla sua tavola a pranzo, a cena: non ha mai mangiato da solo. Durante i Sinodi dei Vescovi in quattro settimane accoglieva i trecento e più partecipanti. La sua ospitalità era proverbiale e soprattutto evangelica. Durante i pasti parlava poco, provocava e faceva parlare. Interrogava e ascoltava molto per avere un’ampia panoramica sulla Chiesa e il mondo con le loro prospettive, i problemi e le potenzialità. Il Papa di solito non parlava molto; amava ascoltare. Ma spesso interveniva orientando la conversazione, rilanciando l’attenzione sugli argomenti che gli interessavano e dando modo così ai commensali di esprimersi, di approfondire una determinata questione.
Quante volte Giovanni Paolo II si è recato tra le croci che segnano ancora l’umanità del nostro tempo, con la sua presenza, con la sua carità, con la sua preghiera. Lui stesso appariva negli ultimi anni quasi piegato sotto la croce. Quante mani ha stretto Giovanni Paolo II? Quanti sguardi ha incrociato? Quanta gente ha incontrato? Quanti hanno ascoltato la sua parola nelle più svariate lingue ed espressioni umane? Quanti hanno celebrato con lui i Sacramenti? Quanti hanno avuto il conforto della sua carità concreta e quanti hanno beneficiato della sua incessabile preghiera? Nessuna indagine, nessuna ricerca, nessuna statistica riesce e può registrare tutto questo: lo sa Dio! Nei suoi viaggi nelle sue visite pastorali il Papa era di passaggio e spesso mi ha colpito questa sensazione che mi pare quasi biblica e mi richiama quella dimensione propria del camminare di Maria “che si mise in viaggio verso la montagna e raggiunse in fretta una città di Giuda” (Lc 1, 39). Non la fretta del fuggire via, dello sfuggire le persone e le situazioni, ma la premura del rendersi presente anche se si è consapevoli di esserlo solo di passaggio perché non ci si può fermare.
Ora anche Giovanni Paolo II si è fermato e da lassù – secondo un’idea cara a Papa Benedetto – è ancora più vicino alla sua Chiesa, ad ogni uomo e ad ogni donna di buona volontà che lo ricordano, che guardano a lui con affetto, ammirazione e dal primo maggio 20011 anche con la venerazione e la preghiera perché è in Dio, è un Beato tra i Santi nel Regno dei Cieli. Egli è stato tra noi come Vescovo di Roma e Sommo Pontefice della Chiesa. Mi piace questo nome di Pontefice, anche se la sua origine sa un po’ di imperatori romani. Mi piace perché esprime una verità nella vita e nel ministero petrino di Karol Wojtyła: essere Pontefice, “Pontifex”, cioè costruttore di ponti: ponti con i fratelli cristiani, con gli appartenenti alle varie religioni, con gli uomini e le donne di ogni parte della terra.
Questo uomo grande, questo Papa itinerante che ha camminato sulle vie del mondo e della storia, quasi un nuovo “Karl der Grosse” (per dirla con una lingua a lui familiare dopo il polacco e prima dell’italiano), un “Carlo Magno” dei nostri tempi, la cui grandezza, santità, beatitudine sta nell’aver sempre dato il primo posto a Dio. Per questo la Chiesa lo ha riconosciuto Beato e per mezzo di lui, per sua intercessione, ora prega il Padre dei Cieli, clemente e benigno, dicendo:
“Dio, ricco di misericordia, che hai chiamato il beato Giovanni Paolo II, papa, a guidare l’intera tua Chiesa, concedi a noi, forti del suo insegnamento, di aprire con fiducia i nostri cuori alla grazia salvifica di Cristo, unico Redentore dell’uomo. Egli vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen”.
Mons. Giulio Viviani
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