Dan, un ragazzo di Gerusalemme
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Le strade di Gerusalemme erano percorse da una strana eccitazione. Gruppetti di persone si muovevano in fretta, vociando e urtandosi.
L’aria molle e tiepida della primavera faceva piacevolmente fremere tuniche e mantelli.
Solo ad Oriente si accumulava un ammasso di nubi.
I mercanti decantavano le loro merci, le donne si affannavano attorno alle bancarelle per gli ultimi acquisti: la solenne festa di Pasqua stava per incominciare.
Ma non era solo la festa a provocare scompiglio ed eccitazione tra la folla.
C’era un altro avvenimento.
Per quel pomeriggio era annunciato uno spettacolo che suscitava la morbosa curiosità di grandi e piccoli: una esecuzione capitale.
Un uomo torturato
Il fabbro martellava la punta di un vomere con gesti larghi e misurati, ma possenti.
Ad ogni colpo, dall’incudine sprizzava una girandola di scintille.
“Zio, zio!”.
Una voce di ragazzo lo interruppe. Un dodicenne, dal volto vivace e intelligente, arrivò di corsa.
“Ah sei tu, Dan!!” disse il fabbro.
“Papà mi ha mandato a prendere i chiodi per i Romani”, ansimò il ragazzo.
Il fabbro prese dei grossi chiodi nuovi che aveva messo in un largo recipiente di terracotta pieno di sabbia.
“Tre uomini?, chiese.
“Papà ha detto tre uomini”.
Il fabbro contò i chiodi con le sue dita larghe e grosse e li mise nelle mani del ragazzo.
Le dita sottili di Dan si piegarono sotto il peso dei grossi chiodi.
“Verrà papà a pagare!”, disse il ragazzo.
“Va bene…”, brontolò il fabbro e riprese a martellare quasi con rabbia.
Sembrava accigliato. Scosse la testa e sputò per terra.
Non gli piacevano i Romani e neppure le crocifissioni.
Il ragazzo camminava più in fretta che poteva, facendosi largo in mezzo alla folla che si accalcava nella viuzza tortuosa cercando i posti migliori per godersi lo spettacolo dei condannati.
“Eccoli! Arrivano”.
Molti allungarono il collo o si misero in punta di piedi.
Il piccolo corteo era aperto dal centurione romano e da due legionari e seguito da un codazzo di monelli saltellanti, di uomini che gridavano e da donne che piangevano.
Altri due legionari spingevano a colpi si frusta i condannati curvi sotto il peso del patibulum, il braccio orizzontale della croce.
Il padre di Dan, era stato ingaggiato a forza dal centurione romano per fare da aiutante dei soldati.
Era un carpentiere e aveva dovuto portare i suoi attrezzi, poi aveva mandato il figlio a prendere i chiodi dal fratello fabbro.
I Romani avevano scelto il percorso più lungo per arrivare al Golgota, il luogo dell’esecuzione.
Volevano attraversare i vicoli più frequentati della città perché la vista della sorte toccata ai condannati fosse un minaccioso monito per tutti.
Quello era il destino riservato ai ribelli.
Dan riuscì ad avvicinarsi al padre e gli fece vedere i chiodi.
In quel momento vide bene i condannati.
Si fermò impietrito, con gli occhi pieni di orrore a fissare il più giovane dei tre. Era il più malconcio.
Era stato torturato senza pietà, una calotta di rami spinosi gli aveva coperto il volto di sangue e quasi non riusciva più a camminare.
Il centurione aveva costretto un certo Simone a portare il patibulum al suo posto. Era il padre di Alessandro e Rufo, due ragazzi che Dan conosceva bene.
“Non può essere lui! Non è possibile!”, Dan gridò, ma nessuno se ne accorse.
I suoi occhi si riempirono di lacrime.
“Lui no! Lui no! Papà!”.
La mano di suo padre si posò sulla spalla del ragazzo, che ora era scossa da singhiozzi.
“Non posso farne a meno, figliolo, lo sai”.
“Ma papà, è lui, il rabbi di Galilea. E’ Gesù… Quello che ha moltiplicato i miei pesci e i pani per dare da mangiare a tanta gente”.
Quella giornata in Galilea, un anno prima, era la più vivida nella memoria di Dan.
Aveva seguito la folla che andava ad ascoltare il rabbi di cui tutti parlavano.
La mamma gli aveva anche preparato il pranzo in un piccolo tascapane, perché conosceva bene il suo gagliardo appetito.
Erano cinque pagnotte d’orzo e due pesci avvolti in un tovagliolo di tela.
La collina formicolava di gente.
Quando sentì i morsi dell’appetito, Dan si accorse che nessun altro si era portato da mangiare. Probabilmente anche il rabbi era stanco e aveva fame.
Così si era avvicinato a lui e un po’ impacciato l’aveva invitato a condividere i pani e i pesci.
Aveva sussurrato delle parole garbate, proprio come gli aveva insegnato sua madre.
Il rabbi lo aveva avvolto nel suo sorriso e lo aveva guardato con quegli occhi profondi che Dan non avrebbe mai più dimenticato.
Poi tutto era successo in un attimo.
Gesù aveva invitato tutti quanti a sedersi per terra e aveva preso in mano i pani e i pesci.
“Addio pranzo!”, aveva pensato Dan .
Ma i suoi pani e i suoi pesci erano diventati dieci, cento, mille, diecimila.
E gli amici di Gesù li avevano distribuiti a tutti.
Là, sulla collina di Galilea, migliaia di persone mangiavano con gusto i suoi pani e i suoi pesci.
Tutti improvvisamente commensali di un miracolo.
E lui aveva riavuto tutto il suo pranzo e lo sbocconcellava, orgoglioso come se il miracolo fosse anche un po’ merito suo, seduto accanto al rabbi e ai suoi amici.
Non avrebbe mai più dimenticato quella giornata.
E quell’uomo.
Ma ora era tutto diverso. E il rabbi di Galilea era solo un grido di dolore inchiodato alla croce.
I soldati giocavano a dadi, indifferenti a tutto. Soltanto il centurione teneva d’occhio la gente e i condannati.
C’erano dei Farisei e dei pezzi grossi del Tempio che gridavano soddisfatti e deridevano Gesù.
“Vieni via. Torniamo a casa!”.
La mano forte di suo padre lo prese per mano e lo obbligò a voltarsi.
Scesero dal ponticello dei condannati, mentre, di colpo, il cielo si riempiva di nubi nere come la pece. Un momento di terrore superstizioso serpeggiò tra la gente.
Il rabbi sulla croce gridò qualcosa. Dan si tappò gli orecchi con le mani.
Tornò a casa e raccontò tutto a sua madre, stupita dal suo volto rigato di lacrime.
“Adesso mangia e non pensarci più!”, gli disse la madre, mentre gli passava le mani nei capelli ricciuti.
Era buio come fosse già notte e turbinava un vento gelido. C’erano poche persone. Gesù era già stato staccato dalla croce. Lo avevano consegnato alla madre e ai suoi amici. Sotto la croce c’era il centurione che vigilava perché tutto avvenisse a norma di legge.
Dan si fece coraggio e si avvicinò.
“Signore, posso avere uno dei chiodi dell’uomo crocifisso in mezzo?”.
“Di quello che chiamavano Re dei Giudei?”.
“Si”.
“E che te ne fai? Lascia perdere”, rispose brusco il Romano.
“Per favore”, implorò Dan. Aveva gli occhi pieni di lacrime.
“Bah… Ebrei!”, borbottò il centurione e gettò uno dei chiodi ai piedi del ragazzo.
Dan prese il chiodo e corse via.
A casa avvolse il chiodo in un panno e lo mise sotto il cuscino. Sul ferro erano rimaste le macchie scure del sangue del rabbi.
Da quel momento il chiodo del supplizio divenne il suo oggetto più caro.
Qualche tempo dopo, una sera, suo padre tornò a casa e posò gli attrezzi di lavoro in un angolo.
Poi all’improvviso disse:
“Il centurione è spacciato. Ha preso le febbri che uccidono. Domani dovrò preparare tutto per la cerimonia funebre”.
Dan fu scosso da una improvvisa decisione.
Corse a prendere il suo piccolo tesoro e corse fuori. Arrivò ansimante alla caserma dei soldati romani.
Lo conoscevano tutti, per via di suo padre, e lo lasciarono passare.
Dopo un po’ si affacciò alla stanza del centurione. Il Romano giaceva sotto un mucchio di coperte, il suo volto era ingiallito e tremante. La febbre lo stava divorando.
Dan si avvicinò e gli mise il chiodo davanti agli occhi.
“Lo ricordi, signore?”.
Gli occhi appannati del moribondo annuirono.
“Prendilo!”.
La mano del centurione si strinse intorno al chiodo.
Le sue labbra screpolate mormorarono: “Grazie, Gesù!”.
Come un soffio d’aria fresca passò sul volto devastato del Romano, i suoi lineamenti si distesero, il respiro rantolante si fece tranquillo e regolare.
Dan disse semplicemente: “Lo sapevo… perché eterna è la Sua Misericordia!”…
E silenziosamente tornò a casa.
Serena notte… nella certezza della Sua Misericordia.
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