Don Giovanni Bertocchi raccontato da un suo compagno di seminario
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Come ho conosciuto don Giò? Era I’anno 1997, il mio primo anno di seminario nella comunità dei preti del sacro cuore. Entrambi avevamo 22 anni. Giovanni era in quarta teologia {quasi alla fine del cammino in seminario); io ero all’inizio, al primo anno; un po’ perso, spaesato, confuso, incerto, non dei tutto sicuro di quello che facevo. Stavo facendo la cosa giusta? era la strada giusta? E poi di seminario ne sapevo davvero poco! In quell’anno, accadeva spesso che come comunità fossimo invitati in alcune parrocchie per dare la nostra testimonianza durante la giornata del seminario, insieme ad una proposta di animazione per giovani e adolescenti.
E’ proprio in quei contesto che ho conosciuto Giovanni. Una sera don Davide, il nostro vicerettore, dopo averci convocato ci presenta un giovane: “Questo ragazzo si chiama Giovanni Bertocchi, ha 22 anni, frequenta la quinta teologia, e per quest’anno sarà con noi ogni volta che saremo chiamati a dare la nostra testimonianza nelle parrocchie”. E così è cominciata I’amicizia. Direi proprio che Amicizia è la parola più giusta per esprimere il rapporto che Giò ha creato con noi, pivellini. La sua semplicità, il suo entusiasmo, la sua passione e simpatia sono stati gli ingredienti che ci hanno messo da subito in sintonia; e personalmente per me è stato uno dei primi motivi per i quali col tempo ho scoperto che la strada del seminario, la via dietro a Gesù, era davvero fantastica.
Poi un elemento particolare aveva contribuito ad arricchire l’amicizia: la comune passione per la musica; Giò alla chitarra, io alla tastiera; e lungo gli anni qualche occasione ci ha visti suonare un po’ insieme. La provvidenza poi ha voluto che entrambi facessimo un cammino di fede e di profonde amicizie nella comunità di Cassinone, durante gli ultimi due anni di teologia. Una comunità che ha gustato la straordinaria bellezza dell’animo di don Giò. Io ci sono arrivato due anni dopo che lui l’aveva lasciata per venire a Verdello! ma ancora parlavano di don Giò, i ragazzi, le famiglie, avevano sempre mille episodi che tenevano nel cuore; e io so con certezza che anche don Giò aveva migliaia di episodi, di volti, di sguardi che gli sono rimasti indelebili nei cuore.
Ecco il volto del pastore: un uomo, un semplice uomo con i piedi per terra, ma che profuma di santità, profuma di Dio. Un uomo che ha nel cuore tutte le persone che incontra, perché sa che in quei volti c’è Gesù da amare, un uomo dal cuore senza barriere, senza confini né di spazio, né di tempo; un pastore che sa portare nel cuore e tenersi a cuore i numerosi fratelli e sorelle che hanno arricchito la sua vita di prete.
Non tutti i preti hanno la stessa vocazione. Nel senso che non tutti i preti sono uguali; non tutti hanno gli stessi carismi; c’è chi è portato più verso la vita pastorale, chi più verso una vita contemplativa, chi più verso gli adulti, chi verso i piccoli…. possiamo trovare tante sfumature quanti sono i preti esistenti. Don Giò aveva il carisma dell’essere prete giovane in mezzo ai giovani. Aveva una straordinaria capacità e sensibilità di comunicare con loro, di farsi amare, di leggere nel loro cuore, di soffrire e gioire con e per loro. La sua dolcezza à stata la sua arma vincente, che unita ad una profonda intelligenza e passione lo hanno veramente reso strumento di Cristo. A cosa servono i preti? a cosa serve la chiesa? Si sente spesso dire oggi da tante parti. Chi ha conosciuto don Giò e chi conosce preti della sua stoffa, sa che la risposta a queste domande non si lascia desiderare. Oggi il mondo, i giovani, sono profondamente malati di una grave malattia: la mancanza di amore, la mancanza di stima, la mancanza di fiducia nella vita e nel suo senso. Il pastore, il vero pastore è colui che investe tutta la sua vita per riaccendere tutte queste luci spente; è l’uomo che sa dare nuovamente il gusto a chi nella vita non crede più; è colui che con la propria vita, non tanto a parole, ma a fatti testimonia e ti imprime addosso tanto amore da farti piangere di gioia. Don Giò credeva profondamente in questo. Si sentiva costantemente in debito con la sensazione che nasceva dalla certezza e consapevolezza di aver ricevuto una quantità smisurata di doni dal Padre Eterno, la sua vita, la sua famiglia, il suo carattere, le sue virtù; nulla per merito suo, tutto immeritato, tutto gratis e in abbondanza. Chi sperimenta un Dio così, non può che decidere di fare della sua vita una continua restituzione e ridistribuzione di tanto bene. E il suo grazie come lo esprimeva? Amando; si! perché solo così possiamo parlare di Gesù, solo cosi si può far conoscere Gesù! Fa’ che io sia amore! Anche questo ricorreva spesso nel suo diario. Ha voluto fare sue queste parole di Santa Teresina di Gesù Bambino, una santa, piccola, semplice ed umile che non desiderava nient’altro che essere nella chiesa I’amore. Allora chi incontra santi così incontra veramente Dio.
Quante volte avete incontrato Gesù in don Giò, è Gesù che vi ha parlato, è Gesù che vi ha amato, è Gesù che vi ha donato un pastore tanto conforme a lui.
Poi quell’anno, il 2004. Noi ci stavamo preparando per diventare sacerdoti. Il primo maggio al mattino, arriva la telefonata, era Chiara, mia cugina: “Ale, don Giò non c’è più”.
Ricordo l’improvviso dolore calato su tutta la comunità di Verdello, di Clusone, sulla diocesi. Ricordo quella commovente veglia di preghiera qui in chiesa. In quell’occasione don Giò ci aveva parlato ancora di sé, attraverso uno scritto scelto da don Arturo, uno stralcio preso de una sua riflessione mentre scriveva dei suoi ragazzi, di quei ragazzi che tanto amava; di quei ragazzi per i quali tanto soffriva, per il loro inseguire zucche vuote, per il loro buttar via la vita, per la loro fatica nel diventare grandi. Questo tipo di sofferenza e preoccupazione è una cosa che ti tormenta. Il prete sente suoi i ragazzi che gli sono affidati. Un tormento che non ti lascia dormire di notte nel continuo pensiero e domanda: “Cosa posso fare per questi ragazzi? Come posso portarli a Dio? Come far sentire loro tutto il bene che provo?”
Questo è lo strazio, il chiodo fisso, il consumarsi del buon pastore. E don Giò veramente era capace di consumarsi. Orari assurdi, pasti saltati. e tanti sacrifici tutti fatti per amore. “Devi riposarti un po’, don Gio”. “Non posso, l’amore non può aspettare”. Ed è proprio quell’amore che gli bruciava dentro che lo rigenerava continuamente.
“Don Giò non c’è più”. Nonostante il buio di quei giorni e I’incapacità di credere all’assurdo accaduto, sentivo che non era cosi. Don Giò c’era ancora, don Giò c’è ancora!
Cosi, quella sera pensando e ripensando all’accaduto è nata la canzone a don Giò amico e fratello, nella quale ho cercato di esprimere quello che abbiamo provato in quei giorni. Ho scritto quello che ho provato per lui ma che potesse essere anche un sentimento universale perché tutti coloro che l’hanno incontrato possono dire di aver visto in lui un amico e un fratello. La musica per tanti aspetti ci ha accomunato, per questo mi è parso quasi naturale e spontaneo salutarlo e ringraziarlo con quel canto che si conclude con l’esplosione della speranza: ora so che tu vivi, l’amore non può mai avere fine, perché tu Giò sei vissuto di puro amore.
Don Giò c’è ancora perché Gesù c’e ancora. Cristo e vivo! Questa è la sola nostra speranza. Questa sia la speranza di tutti voi, cari ragazzi, non abbiate paura di questo mondo, non lasciatevi spaventare dal futuro; non lasciate che !a tristezza porti via tutta la vostra gioia di vivere. Guardate con speranza al vostro futuro, portate nel cuore gli esempi di don Giò; non abbiate né paura, né vergogna nello spendervi con coraggio per Gesù; non abbiate paura! Cristo è tutto il bene, la vita e la gioia che tanto cerchiamo. Cristo e vivo! Niente, nessuna morte potrà mai separarci da Lui; e don Gió ci sta ancora urlando questo. Caro Giò, ora so che tu vivi. Aiutaci a diventare santi come tu sei stato santo!
Don Alessandro Gipponi
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