Prima notte di nozze
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“Per essa l’uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a lei” (Gn)
Ci siamo sposati il 18 settembre del 1970. Durante il fidanzamento avevo avuto modo di intuire il legame morboso che univa mia suocera a mio marito; ma non potevo certo immaginare a che punto si sarebbe spinto.
La cerimonia si svolse nella bella chiesa dei santi Giovanni e Paolo, a Roma, e fu
seguita da un ricevimento a «Le coq d’or», in una antica e romantica villa nei pressi di Ponte Milvio. Tutto procedeva in modo perfetto: il luogo era incantevole, gli ospiti allegri e noi due innamorati e radiosi.
La festa finì tardi. Eravamo troppo stanchi per intraprendere il viaggio di nozze. Così decidemmo di passare la notte nella nostra casa nuova di zecca. E ce ne andammo dopo avere ancora una volta baciato e abbracciato i nostri genitori e gli invitati rimasti.
Pur essendo stanco e un po’ brillo, sulla porta di casa Fabrizio insistè per prendermi in braccio, come si vedeva nei film americani. Fu un exploit piuttosto goffo, e proprio la goffaggine ci rese giocosi accrescendo la nostra eccitazione. Eravamo pronti a «consumare» la nostra prima notte.
Indossavo una camicia di seta con piccoli bottoni a forma di perla, bellissimi da vedere, ma scomodissimi da sbottonare. Fabrizio stava mettendo, alla prova la sua manualità, quando, inaspettato e inquietante, suonò il campanello. L’orologio segnava l’una e trenta. Ci guardammo sgomenti; poi, senza indugi, lui andò ad aprire.
Sulla soglia c’erano mia suocera, mio suocero e gli zii venuti dalle Marche.
«Ho pensato che non dormiste ancora» disse lei, con aria serafica, «così ho invitato gliì zii a vedere la vostra casa prima di partire. Altrimenti chissà quando la vedranno!».
Accompagnata da Fabrizio, che evitava accuratamente di incrociare il mio sguardo, precedetti gli indesiderati ospiti nelle stanze di casa incassando, senza la minima soddisfazione, un tributo di lodi e di esclamazioni estatiche per ogni pezzo dell’arredo. Dopo il piccolo tour, mio suocero, con aria di affettuoso rimprovero, mi sussurrò: «Ma come, non offri niente?».
Feci appello a tutto il mio autocontrollo e, a voce abbastanza alta, in modo che tutti mi sentissero, precisai che, a quell’ora della notte, a tutto ero preparata fuorché a ricevere visite. Benché le mie parole fossero garbate, il tono dovette suonare molto eloquente; dopo un’ulteriore dose di baci e abbracci, gli ospiti se ne andarono. Fabrizio tornò a cimentarsi con le «perle» della mia camicia, che mi ero affrettata a riabbottonare per via dell’inattesa incursione.
Le cose stavano procedendo a ritmo promettente, quando un nuovo trillo – il telefono, questa volta – si avventò su di noi.
«Abbiamo problemi con la macchina» disse mia suocera al figlio incredulo. «Non mi fido di mettermi in strada fino a Civitavecchia…».
Mi ero innamorata di mio marito anche per il suo carattere buono e generoso, dunque la sua risposta non mi stupì: «Non preoccuparti, mamma. Torna a prendere l’auto di Margherita, tanto noi domani partiamo con la mia…».
Riecco mia suocera sulla porta di casa: cambio di chiavi… spostamento di bagagli… nuovi, struggenti addii…
L’orologio segnava le due e trenta. Eravamo di nuovo soli e, ormai senza troppa fiducia, cercavamo di riacciuffare il filo degli slanci interrotti; ma non facemmo in tempo, perché di nuovo squillò il telefono. Ci si creda o no, mia suocera era riuscita a trasmettere al motore della mia auto i suoi influssi perversi. Era sempre andata benissimo, ma quella notte si era inchiodata, e non c’era verso di farla ripartire.
Ero attonita e non volevo dar credito ai miei sensi, soprattutto quando udii Fabrizio rincuorare sua madre: «Non preoccuparti ma’, prendo la mia auto e a Civitavecchia vi ci porto io».
Ero tramortita dallo sfinimento: dunque avrei passato da single la mia notte di nozze!
Fabrizio mi guardava affranto. «Che posso fare?» disse. «E mia madre, mica posso
ammazzarla.,.».
Rientrò alle cinque del mattino, convinto di poter riprendere le effusioni dal punto in cui le avevamo lasciate. La rabbia che, miracolosamente, ero riuscita a contenere sino a quel momento, esplose con violenza: gli lanciai tutti gli oggetti che avevo a portata di mano; ancora oggi, un abat-jour d’ottone ammaccato testimonia la male indirizzata veemenza delle passioni, durante quella prima notte.
Facemmo la pace, naturalmente, e in tarda mattinata, dopo qualche ora di sonno
riparatore, fummo pronti a iniziare il nostro viaggio di nozze.
Ma la valigia di Fabrizio, accuratamente preparata nei giorni precedenti, era sparita.
Non era in casa, non era nelle macchine; non era in nessun posto…
«L’ha presa tua madre» dissi in preda a un rabbioso presentimento.
«Che vai a pensare…» borbottava lui, aprendo armadi e sgabuzzini.
Alla fine si arrese e telefonò: «Mamma, non è che per caso… la mia valigia…».
Che sbadata! Sì, l’aveva lei. Per tre volte aveva cambiato automobile, quella notte, e per tre volte – tutte e tre per sbadataggine – aveva pensato che la valigia del figlio
fosse la sua.
Quando arrivammo a Civitavecchia, trovammo una tavola imbandita come nelle fiabe: tovaglia di fiandra, bicchieri con l’orlo di oro zecchino, posate d’argento e cibo, cibo a volontà, scelto e preparato tenendo conto di tutte le debolezze golose di mio marito. Fabrizio disse: «Mangiamo qualcosa e poi partiamo…».
Mi avviai verso il bagno per lavarmi le mani e, passando davanti alla camera che era stata di mio marito, vidi una scena che ancora oggi mi fa accapponare la pelle: da singolo il letto era diventato matrimoniale, ed era stato preparato con un dispendio di lini e trine ancora più sfacciato di quello della tavola. Dunque non solo a pranzo voleva trattenerci…
Di fronte a tanta premeditazione, la buona creanza non mi soccorse: mi impuntai come certi muli che si bloccano per strada e non si lasciano convincere né dalle botte, né dalle spinte, né dalle lusinghe. Sull’uscio della sala da pranzo dissi a mio marito che, se avesse varcato quella soglia invece di partire immediatamente, il nostro matrimonio sarebbe finito prima di incominciare…
Sono passati trentadue anni da allora e, ormai, mi permetto di scherzare con mia
suocera su quell’incredibile storia.
Qualche settimana fa, durante un pranzo di famiglia, le annunciai che le sue
prodezze di quella notte sarebbero finite in un libro. A quel punto, sorprendentemente, l’altro figlio le domandò: «A proposito, mamma… me lo sono sempre domandato… perché quella notte, invece di disturbare gli sposi, non hai chiamato me, che ero a casa?».
Distacchi e altri addii
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