Scienza e fede – "Scienza e fede"
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SCIENZA E FEDE
Eugenio Corti Giancarlo Cavalleri
Mimep-Docete
Ringrazio per i consigli e l’aiuto che mi ha prestato nella stesura di questo saggio l’amico scienziato Giancarlo Cavalleri, il quale ha voluto anche collabora¬re con un’AGGIUNTA (vedasi in seguito)
Leggo che secondo il filosofo Gianni Vattimo (uno dei capifila del “pensiero debole”, che va ora per la maggiore in Italia e in Occidente) la scienza sarebbe nel nostro tempo il luogo in cui risulta più evidente il naufragio del pensiero metafisico, tanto che proprio essa scien¬za darebbe oggi senso e compimento al proclama nietzscheano della morte di Dio.
L’affermazione mi sorprende, anche se da tre seco¬li ormai – in pratica dal tempo delle prime scoperte astronomiche moderne – sentiamo parlare d’incompatibilità tra scienza e fede. Nella Bibbia tali scoperte non sono contemplate, e ciò inficiava, a giudizio di più d’uno, l’intero sacro testo, anzi inficiava la stessa esistenza di Dio, almeno del Dio della Bibbia.
Purtroppo tale discorso ha turbato in passato la fede di diversi credenti, i quali convenivano che in effetti la Bibbia avrebbe dovuto tener conto delle scoperte fatte dalla scienza nei secoli successivi alla sua stesura, in particolare nel Milleseicento e Millesettecento. Ma – ci chiediamo noi – perché non anche delle scoperte fatte nel nostro secolo allora (il big bang, le galassie, le macrocelle, le nane bianche, le supernove, i “buchi neri” al cui margine il tempo si arresta, nonché i quasar, i neutrini, i muoni, i pulsar, gli spin, e tante altre ancora)? E perché non avrebbe dovuto tener conto, la Bibbia, anche delle scoperte che verranno fatte nei secoli e millenni a venire, finché l’uomo abiterà la terra? In questo caso però le parole del sacro testo non sarebbero state comprese dai lettori cui erano rivolte: sia da quelli contemporanei alla sua stesura, sia da quelli venuti dopo mille, o duemila anni, e neanche da noi: per millenni tali parole avrebbero semplicemente costituito una cabala incomprensibile…….
…..Secondo il ricordo che mi resta di lontane letture, i punti della Bibbia criticati con più sufficienza nell’ “età dei lumi” – indicati anzi come patentemente infantili – erano due: la creazione della luce nel primo giorno o tempo, mentre il sole compare solo nel quarto giorno («Come poteva esserci luce, se non esisteva ancora il sole?» scherniva Voltaire), e la creazione della prima donna, ricavata dal corpo – da una costola – del primo uomo.
LE SCOPERTE COSMOLOGICHE
Oggi sappiamo che l’universo al suo inizio, cioè al momento del big bang (da 10 a 20 miliardi di anni fa), era composto di materia oscura ultracompressa, che mentre si espandeva divenne luminosissima. Fu quella la prima luce, e raggiunse una tale intensità, quale non si sarebbe più avuta in seguito. Quanto al nostro sole, sap¬piamo che – essendo una stella di seconda o terza gene¬razione – si è formato diversi miliardi di anni più tardi. Affascinante oltre ogni immaginazione è in realtà la storia dell’universo che la scienza ci propone oggi. Gli scienziati – com’è giusto – hanno effettuato il loro lavoro di ricerca senza farsi condizionare dal presupposto del¬l’esistenza o no di Dio. Ed ecco: nei credenti di oggi, incluso l’estensore delle presenti note, l’impressione è che il procedere scientifico (forse perché consiste in con¬tinue individuazioni di frammenti della verità) riporti di continuo a Dio. Certo – come i cristiani sanno – le cose sono organizzate in modo che l’uomo non sia costretto, quasi obbligato fisicamente, a dichiarare che crede (la libertà infatti – che nella sua fase più alta è libertà di ade¬rire a Dio, o di respingerlo – fa parte costitutiva della natura umana: senza tale libertà l’uomo sarebbe snatura¬to). Comunque oggi non meno di un tempo, mano a mano scopre nuovi aspetti della realtà che lo circonda, l’uomo si trova puntualmente davanti all’evidenza di un’azione pregressa di Dio creatore.
Giudichi chi ci legge, sulla base appunto di ciò che la scienza afferma (useremo al minimo indispensabile il linguaggio scientifico che sconcerta il lettore comune):
1 – Al momento del big bang (o grande esplosione iniziale) ancora non sappiamo se l’universo abbia avuto la dimensione di una capocchia di spillo, o anche meno, fino a dimensione zero.
2 – Un decimillesimo di secondo dopo quell’inizio, l’universo era una sfera incredibilmente compressa di materia e di energia in violentissima espansione: aveva una temperatura di mille miliardi (un trilione) di gradi circa, e un raggio di circa un trentesimo di anno luce, come a dire di trecento miliardi di chilometri. In quel momento dunque l’universo – che si stava espandendo a una velocità di gran lunga superiore a quella della luce – era pur sempre un minuscolo punto rispetto alla sue dimensioni oggi osservabili, le quali, secondo riferisce Hawking, sono di chilometri 1 seguito da 24 zeri (cioè di un milione di miliardi di miliardi di chilometri).
3 – Un minuto dopo il big bang la temperatura del¬l’universo in espansione era scesa a circa 10 miliardi di gradi. Dopo tre minuti era scesa a circa un miliardo di gradi (che è la temperatura presente oggi all’interno delle stelle più calde). A tale temperatura le particelle che componevano la materia primigenia presero ad interagire fra loro e a trasformarsi negli elementi di cui è composta la materia attualmente. L’intero universo finì così con l’essere formato da idrogeno (circa 77% in peso), da elio (circa 23%), e da minime quantità di altri elementi. Tale percentuale è oggi pochissimo mutata, anche se in alcuni pianeti, tra cui il nostro, la percentuale degli elementi è completamente diversa.
4 – Circa un miliardo di anni dopo il big bang, qua e là dentro l’enorme sfera. d’idrogeno ed elio sempre in espansione, si svilupparono delle contrazioni, che si con¬densarono fino a formare le prime galassie e le prime stel¬le. Queste vissero «bruciando idrogeno in elio e liberando l’energia risultante sotto forma di calore e di luce».
Ciascuna delle stelle ebbe – a seconda delle pro¬prie dimensioni – una sua storia: cioè una nascita, una vita più o meno lunga (sempre comunque di vari milioni di anni), e vicende disuguali, in seguito alle quali molte esplosero, liberando materia che contribuì alla formazio¬ne di altre stelle e dei loro pianeti, anche in generazioni successive. Appunto così sono nati il nostro sole e i suoi pianeti. I fisici hanno potuto ricostruire con chiarezza questi complicatissimi processi soprattutto grazie al loro avanzamento nello studio della materia, ossia grazie alle scoperte da loro fatte nel campo dell’estremamente pic¬colo, fino all’interno delle componenti più infinitesime dell’atomo.
5 – Attualmente l’espansione dell’universo (gli scienziati preferiscono dire `dell’orizzonte degli eventi’) continua sempre a una velocità per noi inimmaginabile, cosicché ogni miliardo di anni ciò che noi riusciamo a vedere dell’universo aumenta circa del 5 per cento. Rispetto al passato però, a causa della forza di gravita¬zione, la sua velocità d’espansione è decrescente, seb¬bene le più lontane fra le galassie che possiamo osserva¬re, si allontanino da noi con velocità di poco inferiore a quella della luce. È in ogni caso da tener presente che se – come qualche studioso congettura – a motivo appunto della gravitazione dovesse in futuro aver luogo una contrazione (se l’universo cioè dovesse collassare verso un punto al proprio interno), ciò avverrà non prima di almeno 10 – 20 miliardi di anni.
Secondo le attuali osservazioni astrofisiche comunque l’espansione dovrebbe durare per sempre, anche se rallentata dall’attrazione gravitazionale.
Quanto al nostro sole sappiamo con certezza che fra appena 5 miliardi di anni, dopo avere trasformato in elio tutto l’idrogeno del suo nucleo, si raffredderà, passando per colossali vicissitudini diverse. Tra queste un’enorme dilatazione che lo porterà a inglobare i pianeti ad esso più vicini, compresa la terra; poi, con processo inverso, una contrazione ancora più enorme, che ridurrà il suo volume a circa un milionesimo di quello attuale; l’astro diverrà così una `nana bianca’, dapprima molto calda e poi sempre più fredda, con un raggio di poche migliaia di chilometri e una densità di centinaia di ton¬nellate per centimetro cubico.
A quel punto la polvere delle nostre ossa, tutte le città coi loro grattacieli e le più belle cattedrali, le statue di Michelangelo e il poema di Dante, tutto ciò che Shakespeare, i grandi filosofi, e i maggiori scienziati hanno prodotto, insieme con ogni altro segno della nostra presen¬za nel mondo, dopo essere stati bruciati durante l’inglobamento del pianeta terra nel sole, si ridurranno a pochi grumi inerti di gelida materia. Quel rudere di sole attenderà quindi d’essere trascinato nella sorte degli altri cento miliardi di soli della nostra galassia, la quale galassia a sua volta seguirà la sorte delle altre cento miliardi e più di galassie presenti nell’universo a noi visibile.
Se ignoriamo per ora quale sarà la sorte dell’im¬menso conglomerato di materia e di spazio in cui ci tro¬viamo collocati, conosciamo però ormai a sufficienza la materia stessa per renderci conto che essa non può esser¬si creata da sé. Dobbiamo pertanto dedurne che Qualcuno ad essa esterno l’abbia creata e dotata degli indirizzi da noi osservati nella nostra rapida scorsa.
LA VITA E IL CASO
La vita è comparsa sulla terra circa 3,7 miliardi di anni fa; per tre miliardi di anni dopo la sua comparsa gli unici esseri viventi sul nostro pianeta sono stati i batteri e le alghe azzurre.
Come si è formata la vita? Per creazione diretta di quel Qualcuno, oppure per una “legge” che quel Qualcuno – cioè Dio – aveva iscritta nel cuore della materia fin dal momento in cui l’aveva creata? La Bibbia – mentre è chiara ed esplicita in merito alla creazione diretta ad opera di Dio tanto della materia, che dell’ani¬ma dell’uomo (rispettivamente all’inizio e al termine del suo processo creativo), circa la comparsa della vita non è altrettanto univoca. Riporta infatti alcuni comandi del Creatore: «La terra produca esseri viventi… Le acque brulichino di esseri viventi…» ecc., ma dice anche: «Dio creò i grandi mostri marini…» ecc.
Tuttavia che la comparsa della vita non sia stata lasciata unicamente al caso (anche se dentro la materia primigenia erano senza dubbio già presenti le condizioni necessarie alla sua comparsa) ci sembra risulti evidente da diverse constatazioni scientifiche. Per esempio da quanto scrive Griscia Bogdanov: «Una cellula vivente è composta di una ventina di aminoacidi che formano una “catena” compatta. La funzione di questi aminoacidi dipende a sua volta da circa duemila enzimi specifici… I biologi giungono a calcolare che la probabilità che un migliaio di enzimi differenti si raggruppi per caso in modo ordinato fino a formare una cellula vivente (nel corso di un’evoluzione di diversi miliardi di anni) è del¬l’ordine di 1 seguito mille zeri contro 1».
Bogdanov ci mette anche davanti al tempo neces¬sario perché si verifichi uno solo dei diversi passaggi necessari per arrivare alla prima cellula vivente: «Affin¬ché la formazione dei nucleotidi porti “per caso” all’ela¬borazione di una molecola di RNA (acido ribonucleico) utilizzabile, sarebbe stato necessario che la natura molti¬plicasse i tentativi a caso per un tempo di almeno anni 1 seguito da 15 zeri (cioè un milione di miliardi di anni), il che è un tempo centomila volte più esteso dell’età com¬plessiva del nostro universo».
Non meno illuminante è quanto ha detto il prof. Bucci del Campus Biomedico Universitario di Roma, nel corso di un congresso internazionale avente per tema “La probabilità nelle scienze”: «Supponiamo che io vada in una grotta preistorica, e vi trovi incisa, su una parete, una scritta, per esempio: «Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura, chè la diritta via era smarrita», e che io dica ai miei colleghi: in quella grotta, a causa dell’erosione dell’acqua, della solidificazione dei carbonati e dell’azione del vento, si è prodotta, per caso, la prima frase della Divina Commedia. Non mi prende¬rebbero per matto? Eppure non avrebbero nulla da ridire se dicessi loro che si è formata per caso la prima cellula vivente, che ha un contenuto d’informazioni equivalente a 5000 volte l’intera Divina Commedia».
Nonostante constatazioni come queste, c’è chi non vuol riconoscere che a monte di ogni cosa ci sia un’Intelligenza e un’azione creatrice, e propone che il tutto provenga dal caso.
Si presenta però subito un’obiezione: ed è che il caso può esistere (come infatti esiste, e ha una sua fun¬zione) all’interno di un mondo già esistente; ma come potrebbe il caso inventarsi da sé, all’interno del nulla?
Nel nulla, per definizione, non ci può essere altro che il nulla.
Comunque, al di là di questa obiezione (che allo scrivente sembra definitiva), proprio le scoperte scientifi¬che ci indirizzano in senso opposto al caso. Si può infatti dire che oggi nulla risulta privo di una sua ben precisa origine. Mentre ancora nel medio evo si credeva che qualche raro essere elementare si formasse da sé, cioè senza essere stato generato (certi microrganismi che a volte compaiono nelle pozzanghere, per esempio), attual¬mente – grazie al progresso scientifico che ha consentito di esplorare dentro il miliardesimo di miliardesimo di millimetro – sappiamo che non è affatto così.
Trovo in B. Krzimek che i corpuscoli viventi più elementari sono gli Euglonoidini (pressoché invisibili, e formati da una sola cellula), abitatori appunto degli sta¬gni. In che modo nascono? Come tutti gli altri esseri uni¬cellulari, essi si riproducono per scissione dell’unica cel¬lula da cui sono formati, che è il modo più elementare di riproduzione: per quanto semplice però un tale processo è in realtà molto complicato, e per cominciare non ha luogo a caso, ma su ordine del DNA, che è esso stesso un sistema complicato presente nella cellula insieme con altri sistemi complicati. Senza entrare in merito alla riproduzione inconfrontabilmente più complessa (ed affascinante) degli animali superiori e dell’uomo, ci
basterà ricordare anche quanto avviene nei semi vegetali, pur minimi: i quali si sviluppano grazie alle “memorie” iscritte al loro interno. Oggi sappiamo dunque che non solo gli organismi più complessi, ma neppure il più pic¬colo filo d’erba proviene dal caso: e dovrebbe provenire dal caso l’intero universo?
Bisogna aggiungere che lo stesso lavoro scientifi¬co presuppone un’Intelligenza secondo cui tutte le cose sono state costruite, non solo, ma presuppone in pari tempo menti umane costruite esse pure secondo quell’Intelligenza, le quali menti appunto per ciò sono in grado di indagare tutto quello che esiste. Come afferma S. Hawking: «L’intera storia della scienza è stata una graduale presa di coscienza del fatto che gli eventi non accadono in modo arbitrario, ma che riflettono un ordine sottostante». Egli non ne trae motivo per credere in un Creatore, ciononostante – per chi sappia non arrestarsi alla forma mentis strettamente scientifica – l’ordine indi¬viduato da lui e dagli altri scienziati nei loro progreditis¬simi studi, è appunto quello (su cui tutto si regge, e in base al quale tutto si spiega) che l’uomo ha in ogni epoca chiamato ordine divino.
LE SCOPERTE BIOLOGICHE
Riportiamoci alla costola di Adamo.
Circa l’origine della prima coppia umana, allo stato attuale delle conoscenze a me sembra che proprio la Bibbia ci illumini, appunto con la storia della costola; naturalmente se letta utilizzando le informazioni di cui ora disponiamo.
La Bibbia afferma che i corpi del primo uomo e della prima donna non furono da Dio creati dal nulla, bensì tratti da materia (fango) preesistente; in effetti la paleonto¬logia ha rinvenuto più di una linea di scimmioni che nel corso del tempo si sono venuti evolvendo verso la forma umana, finché una di tali linee d’umanoidi – quella che portava all’homo sapiens – ha prevalso sulle altre.
Possiamo pensare che la creazione dell’uomo (mediante l’immissione, da parte di Dio, dell’anima dentro a materia preesistente) abbia avuto luogo in un ovulo fecondato della sopradetta specie, durante la sua gestazio¬ne. Nel DNA di quell’ovulo potrebbe poi essere intervenu¬ta una mutazione del tipo che dà improvvisamente origine a una nuova specie (fenomeno normale in natura – la mutazione del cariotipo – anche se poco frequente): trat¬tandosi di specie nuova di tale tipo, ad essa non sarebbe stato più possibile riprodursi accoppiandosi con individui della specie da cui proveniva. Da quell’unico ovulo, scis¬sosi in due (dunque da quello che in partenza era un unico corpo) sarebbero quindi nati due gemelli, uno maschio, l’altro femmina: la prima coppia della specie umana.
Quanto alla data in cui tutto ciò si sarebbe verificato, c’è stata in questi ultimi anni una scoperta straordinaria¬mente interessante. In un articolo sulla rivista Le Scienze (n° 286 del giugno 92) i professori A. C. Wilson e R. L. Cann dell’università di Berkeley, hanno annunciato: «I confronti genetici» (nello studio del DNA miotocondriale, che viene trasmesso solo per via materna) «depongono a favore del fatto che tutta l’umanità attuale possa essere ricondotta per ascendenza materna a una sola donna che visse probabilmente in Africa circa 200.000 anni fa. L’umanità moderna apparve in un unico luogo e da lì si propagò». Sempre secondo la suddetta rivista altri scienzia¬ti – non solo americani, ma anche giapponesi – che hanno pure effettuato studi sul DNA mitocondriale, sono giunti a conclusioni analoghe: la prima donna sarebbe comparsa tra 150 e 180.000 anni fa. A risultati similari (Le Scienze, n° 281 del gennaio 92) erano pure arrivati, per via diversa, L. L. Cavalli-Sforza e il suo gruppo della Stanford University insieme con altri.
Più recentemente nella rivista americana Nature (vol. 368 del 31 marzo 94) è apparso un articolo di D. M. Waddle (università di New York) in cui si giunge a risul¬tati molto simili attraverso una via del tutto diversa, cioè lo studio dei più antichi crani di homo sapiens; secondo questo studio il luogo di comparsa della nostra specie potrebbe essere – allo stato odierno delle ricerche – sia l’Africa orientale, che il Medio Oriente, la data intorno a 150.000 anni fa.
Molto interessante nell’articolo di Wilson e Cann citato sopra, è anche la scoperta che, prima di soppiantar¬li, l’homo sapiens ha abitato per decine di migliaia di anni accanto a tipi umanoidi più arcaici senza mescolarsi con essi. Il che agli scienziati appare strano: «eppure vi sono testimonianze fossili che lo convalidano. Le scoper¬te effettuate nelle grotte di Qafzeh in Israele indicano appunto che uomini di Neandertal e uomini di tipo moderno vissero fianco a fianco per 40.000 anni, con ben poche tracce di interscambio genetico.» Come ciò sia potuto accadere «resta un mistero».
Queste ricerche – recentissime – proseguono atti¬vamente; i francesi hanno avviato a loro volta al Collège de France studi «sulle sequenze presenti nel cromosoma Y, che determinano l’appartenenza al sesso maschile» per indagare se anche le linee di discendenza paterne riconducano a un singolo progenitore. Secondo un primo annuncio apparso ultimamente sempre sulla rivista Le scienze, sembrerebbe che tale primo uomo risalga a circa 250.000 anni fa (quindi, entro gli errori sperimentali, in accordo con la data della prima donna).
Una conclusione? Oggi, che le conosciamo un po’ meglio, a me pare che tutte le cose, e in particolare i cieli (inclusi quelli piccolissimi che grandiosamente s’incur¬vano all’interno degli atomi) narrino più ancora che in passato la gloria di Dio. Non vedo come sia possibile sostenere il contrario: addirittura che oggi la scienza pro¬clami la morte di Dio. In tutta serenità, e nel più pieno rispetto delle opinioni altrui, mi sembra evidente che le grandi scoperte scientifiche del nostro secolo costituisca¬no attualmente, per le persone colte, uno dei più validi motivi di apertura alla fede.
AGGIUNTA
Per i lettori che conoscano la fisica a livello uni¬versitario, il professor Giancarlo Cavalleri ci ha inviato la seguente:
PROVA METAFISICA DELLA NECESSITA’ DI UNA CREAZIONE NEL TEMPO con l’utilizzo dei dati e delle teorie dell’astrofisica contemporanea
In merito all’origine dell’universo le teorie si divi¬dono attualmente in due filoni: quelle che, basandosi sulle osservazioni astrofisiche e sulle teorie più accredi¬tate, concludono che l’universo non può esistere da sem¬pre, e le teorie che, con ipotesi assurde, violanti le leggi note, tentano di giustificare una sua vita passata infinita (nel senso di mancante di alcun limite nel passato).
Le teorie del primo filone fanno tutte riferimento a ciò che vi è di più sicuro in tutta la fisica: il secondo principio della termodinamica. Applicato ad un sistema isolato (e l’universo lo è per definizione, in quanto inclu¬de tutto quanto vi è di fisico, e pertanto non interferisce con nient’altro al di fuori di sé stesso) il secondo princi¬pio afferma che: o un sistema è stazionario, oppure, se muta, evolve verso stati più probabili. La probabilità di uno stato di un sistema cresce con l’aumentare dei modi con cui può essere realizzato. La conseguenza che qui ci interessa è che in un sistema isolato le differenze di tem¬peratura tendono a diminuire. Pertanto, se l’universo fosse esistito da sempre, vi sarebbe oggi un completo livellamento delle temperature, contrariamente a quanto si osserva (stelle caldissime, pianeti freddi, e spazi inter¬stellari freddissimi).
Poiché l’universo esiste, se prima di un determinato momento nel passato non esisteva, deve essere stato porta¬to all’esistenza da qualcosa (o Qualcuno) esterno o tra¬scendente l’universo stesso. Questa conclusione, proposta dal grande fisico Jeans verso la fine del secolo scorso, ripresa dal famoso astrofisico Eddington, e poi anche da Pio XII, è tuttora valida, nonostante molti tentativi teorici per inficiarla. La teoria genuina del grande scoppio pri¬mordiale (big bang) l’ha confermata. Immaginiamo infatti di aver filmato l’espansione dell’universo, e di proiettare il film a ritroso: è come se il tempo scorresse verso il passato e l’universo si rimpiccolisse fino a dimensioni quasi nulle, corrispondenti all’istante iniziale di esistenza. La vita pas¬sata dall’univero è addirittura quantizzabile: da dieci a venti miliardi di anni.
Una vita limitata nel tempo non solo conferma le conclusioni delle “cinque vie” tomiste sull’esistenza di Dio, ma addirittura conferma la rivelazione biblica come interpretata dogmaticamente nel IV Concilio Lateranense del 1215: «Dio, pur con decreto eterno, creò il mondo (= l’universo materiale e quello dei puri spiriti) nel tempo».
Le teorie del secondo filone, che sono state elabo¬rate dall’inizio del nostro secolo sino al 1980, hanno inu¬tilmente tentato di violare il secondo principio della ter¬modinamica, e sono già state sconfessate dalle osserva¬zioni sperimentali. Le meno insensate, e che hanno avuto un discreto seguito, sono due: la teoria dell’universo perpetuamente oscillante, e quella dello stato stazionario.
La prima fu ipotizzata subito dopo la conferma, da parte di Humason e Hubble nel 1930, dell’espansione dell’universo. Se il rapporto fra la densità media di materia e la densità critica (che dipende dal valore della
costante H di Hubble) supera il valore unitario, la teoria gravitazionale di Newton (che per un universo omogeneo dà gli stessi risultati della relatività generale di Einstein) prevede che il rallentamento dell’espansione a causa del¬l’attrazione gravitazionale sia tale da fermare l’espansio¬ne ancora a distanze finite fra le galassie, per poi iniziare una fase di contrazione. La contrazione terminerebbe in un’implosione in un quasi punto, e sarebbe seguita da un rimbalzo che darebbe poi luogo a una nuova espansione uguale a quella del ciclo precedente. L’evoluzione sareb¬be periodica (o ciclica), con espansione rallentata, segui¬ta da contrazione fino a un grande colpo di strizione (big crunch), quindi dal rimbalzo, e così via.
Questa teoria dell’universo ciclico (eternamente pulsante nello stesso modo) fu dimostrato essere intrinse¬camente contradditoria da Tolman nel 1946, ancor prima che fosse confutata dalle osservazioni astrofisiche. Infatti, durante la contrazione, tutta la radiazione elettro¬magnetica (fra cui la luce) espressa dalle stelle, subireb¬be una diminuzione della sua lunghezza d’onda propor¬zionalmente alla riduzione della distanza fra due ammas¬si di galassie lontani. Poichè l’energia di ogni treno di onde elettromagnetiche (quanto o fotone) è proporziona¬le alla sua frequenza, e quindi inversamente proporziona¬le alla sua lunghezza d’onda, l’energia totale (esclusa quella gravitazionale) alla fine della contrazione sarebbe superiore a quella dell’inizio dell’espansione dello stesso ciclo. Se allora questa energia si conserva durante il rim¬balzo, le condizioni iniziali del nuovo ciclo sono diverse da quelle del ciclo precedente. Poichè il raggio massimo Rm di espansione dell’universo risulta proporzionale alla somma di tutti i tipi di energia tranne quella gravitazio¬nale, il Rmn del ciclo ennesimo sarebbe superiore a quel¬lo Rm(n-1) del ciclo enneunesimo. Le ampiezze dei cicli aumenterebbero esponenzialmente sino ad andare all’in¬finito. Tolman dimostrò che, prima del nostro ciclo, non sarebbero potuti esserci più di 124 cicli precedenti.
La misura delle densità media d, di materia usuale (detta barionica), ottenuta negli ultimi venti anni in base all’abbondanza relativa degli elementi leggeri, ha poi dato un valore di solo un ventesimo della densità critica dc (ossia d = 0,05). Anche ipotizzando una massa oscura non barionica, non si può più sostenere che db sia mag¬giore di dc ossia che d = db/dc sia maggiore di uno. Se lo fosse, il tempo di espansione dell’universo (a partire dal big bang) sarebbe inferiore all’età delle stelle più vec¬chie, e anche a quella cosmica desunta in base al decadi¬mento degli elementi radioattivi.
Dopo il fallimento della teoria dell’universo cicli¬co, Bondi, Gold e Hoyle proposero nel 1948 la teoria dello stato stazionario, dicendo apertamente di averla eleborata per evitare la necessità della creazione dell’uni¬verso (che risulta evidente se la sua vita passata è limita¬ta). Questi autori ipotizzarono, contro il principio di con¬servazione dell’energia, che si creasse ogni anno un atomo di idrogeno in ogni chilometro cubico. Una produ¬zione così piccola sfugge infatti ad ogni verifica speri¬mentale diretta, ma è sufficiente a mantenere stazionario l’universo, perchè la sua diminuzione di densità a causa dell’espansione è compensata dal nuovo idrogeno creato che, condensandosi, forma nuove stelle giovani, le quali rimpiazzano quelle vecchie che si vanno spegnendo. L’universo sarebbe mediamente ora come era in un lonta¬nissimo passato. Questa previsione è stata però sconfes¬sata dall’osservazione dei nuclei (quasar) di galassie sempre più lontane. Infatti più una galassia è lontana, più tempo impiega la luce da essa emessa per raggiungerci: noi quindi la vediamo come era al momento dell’emissione della luce che ora riceviamo. Ebbene i nuclei galat¬tici (detti quasar) sono risultati tanto più luminosi quanto più lontani da noi, fino ad un massimo, dopodiché non ve ne sono quasi più. La spiegazione è semplice: prima della nascita dei quasar, corrispondente ad una certa distanza r, essi non potevano vedersi, poi per distanze inferiori i quasar giovani erano luminosissimi, e invec¬chiando si sono andati spegnendo. Quelli più vicini li osserviamo come erano in tempi recenti, ossia quando sono ormai vecchi. L’universo è quindi evolutivo e non stazionario. Le osservazioni che hanno definitivamente sconfessato la teoria dello stato stazionario sono state fatte dal 1967 in poi. Poco prima, nel 1965, era stata sco¬perta la radiazione cosmica fossile, che è come una firma del big bang, e che aveva già sconfessato la teoria dello stato stazionario.
Dopo il 1980 è stata proposta la teoria dell’univer¬so inflazionario (ossia dell’universo che si è gonfiato rapidamente nelle prime frazioni di secondo dall’esplo¬sione iniziale: si veda G. Cavalleri, Cap. VI) Questa teo¬ria ha tuttora parecchi aderenti, malgrado si basi su ipote¬si assurde, sia stata sconfessata dalle osservazioni astrofi¬siche, e predica un termine cosmologico errato per un fattore uno seguito da centocinque zeri. Le quattro ipote¬si di questa teoria sono: 1) il vuoto quantistico, con tutte le proprietà attuali, esisteva prima delle particelle ele¬mentari; 2) vi era, e vi è, uno sforzo di trazione nello spa¬zio vuoto; 3) vi è anche, contrariamente a 2), una repul¬sione cosmica; 4) il vuoto quantistico è in rapidissima espansione, pur mantenendo inalterate le sue proprietà di produrre qua e là, statisticamente, nuove bolle-universo.
Ora nel nuovo ramo di ricerca chiamato “elettrodi¬namica stocastica” le proprietà del vuoto quantistico sono dovute al campo elettromagnetico irraggiato da tutte le particelle dell’universo: tali proprietà non poteva¬no perciò esistere prima che esistessero dette particelle. È dunque chiaro che, in questa nuova visione, il primo postulato scambia l’effetto con la causa. Il secondo e terzo postulato sono così strani e inconcepibili (sforzi agenti sul vuoto) che è più facile accettare la creazione dal nulla. Il quarto postulato è necessario per eliminare la compenetrazione delle varie bolle-universo che si pro¬durrebbero casualmente in varie parti dello spazio. Infatti la teoria dell’universo inflazionario predice che le varie bolle universo si espandano per sempre e che il vuoto quantistico esista da sempre, per cui vi sarebbe stata una compenetrazione di tutte le infinite bolle sorte nel passa¬to con conseguente densità infinita. Ma è assurdo che l’e¬spansione del vuoto quantistico mantenga le stesse pro¬prietà malgrado la sua rarefazione dovuta all’espansione. Questa teoria predìce anche che la densità media di materia sia uguale a quella critica, con conseguente vita di espansione (per la nostra bolla-universo) minore del¬l’età delle stelle più vecchie e degli elementi radioattivi primordiali. Ma è soprattutto un termine repulsivo cosmologico tanto più grande del massimo consentito, che sconfessa pienamente questa teoria.
Le teorie appartenenti al secondo filone sono dun¬que inattendibili, e i loro risultati negativi rafforzano le teorie del primo filone. Se infatti non fossero state elabo¬rate, si potrebbe dire: per ora sembra che la vita passata dell’universo sia limitata, ma forse si troverà una nuova teoria che elimini la limitazione. Ora il fatto che nell’am¬bito glel secondo filone le abbiano pensate tutte, anche partendo da ipotesi assurde, rafforza notevolmente la conclusione del primo filone. A questo punto basta appli¬care il principio di ragion sufficiente (che è la forma forte di quello di causalità) per dedurre che l’universo necessiti di una creazione nel tempo ad opera di qualco¬sa, o Qualcuno, esterno o trascendente l’universo stesso. Si noti che questa conclusione è metafisica, perché tale è il principio di causalità. Questo principio non è però una pura invenzione, o postulato, dell’uomo. La nostra cono¬scenza trae i suoi primi dati dai sensi, ossia dall’esperien¬za, e poi generalizza le constatazioni, in quanto la nostra intelligenza coglie l’essenza delle cose. È sufficiente vedere un solo triangolo, e definirlo, per avere l’idea, cioè per capire l’essenza, di tutti i possibili triangoli. Allo stesso modo noi constatiamo la causalità nella natura, ossia nell’esperienza, e ne cogliamo l’essenza, cioè il principio di causalità. Questo principio è poi così forte, così necessario, che chi vuol negarlo è costretto ad usar¬lo. Infatti se si comincia a dire: «Il principio di causalità non è vero perché…» con quel «perché» lo si sta usando.
Tutto ciò è stato ben precisato da G. Vico, T. Reid e A. Livi (La filosofia del senso comune, ed. Ares, 1990 Milano). È il senso comune, cioè quel giudizio intellettuale, comune a tutti gli uomini di tutti i tempi, che coglie, ossia constata, le realtà più importanti e di base, cioè indimostrabili, come l’esistenza del mondo esterno indipendentemente dal soggetto conoscente. Queste conoscenze fondamentali sono poi la base indispensabile per ogni scienza. Una scienza corretta non fa che approfondire e migliorare le apprensioni dei sensi, ed anche aiutare il senso comune. Anche la metafisica classica non è che una formalizzazione del senso comune. A noi comunque, della metafisica, serve solo il principio di causalità (usato anche in ogni scienza e nel parlar comune) nella forma forte di “ragion sufficiente”.
Una volta accettato il principio di causalità (che è la formalizzazione metafisica delle constatazioni del senso comune), appare più chiaro e metafisicamente provato quanto già detto, e che qui riassumo in due conclusioni:
1 – Se l’universo non può esistere da sempre, esso non ha in sé stesso la causa della sua esistenza. Il principio di ragion sufficiente (forma forte del principio di cau¬salità) richiede allora che esso sia stato posto nell’esistenza (ossia creato) da Qualcuno esterno, o trascenden¬te, l’universo stesso.
Questa prima conclusione è la stessa di quella ottenibile mediante la metafisica classica, e in particolare mediante le “cinque vie” tomiste dell’esistenza di Dio.
2 – Una vita dell’universo limitata nel passato implica anche la creazione “nel tempo”, ossia in un tempo passato finito. Ciò conferma quanto rivelatoci dalla Bibbia ed interpretato dogmaticamente dalla Chiesa cattolica nel IV Concilio Lateranense del 1215: «Dio, pur con decreto eterno, creò il mondo nel tempo».
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