Spiritualità – La Preghiera
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LA PREGHIERA
IMPARARE “UNA PREGHIERA” O IMPARARE A PREGARE?
Si parte da un fatto.
Il fatto sta sotto gli occhi dei discepoli: il Maestro prega….
“…E avvenne, mentre Egli pregava in un certo luogo, quando ebbe finito, uno dei Suoi discepoli Gli disse: – Signore, insegnaci a pregare…”(Luca, 1.1)
Gesù prega da solo (Luca 9.18), si ritira in luoghi deserti (Luca 4.42 – 5.16) e i discepoli non sopportano più quell’inaccessibilità.
Senza violare la Sua solitudine, senza forzare il Suo ritiro, desiderano “entrare” nella preghiera di Cristo, carpirne lo stile, afferrarne i contenuti, farne il punto di riferimento per il loro nuovo modo di pregare.
Può risultare relativamente facile insegnare delle preghiere. E, di fatto, troppa educazione religiosa non è servita ad altro che ad imparare delle formule, dei modi, delle regole.
Molto più arduo “creare la preghiera”, scoprirla, inventarla, attizzarne il dinamismo profondo, scovarne la sorgente.
Può essere agevole programmare la preghiera, regolamentarla. Più impegnativo, invece, “seminare la preghiera”, liberarne il movimento essenziale ed imprevedibile……
Può essere comodo insistere sul “dovere” e magari ricorrere al ricatto e alla paura (chi prega si salva, chi non prega si danna).
Più difficile far esplodere dentro l’esigenza della preghiera, comunicarne il fascino, la nostalgia, il gusto, la bellezza.
Una catechesi autenticamente cristiana non può limitarsi alla “morale”, ma deve spingersi ad una “poetica della preghiera”.
Il terreno proprio della preghiera è quello fecondo della vita, non quello arido dell’esercitazione religiosa, della pratica devota, della prestazione virtuosa, dell’ adempimento oneroso, dell’esecuzione puntigliosa.
La preghiera insegnata da Gesù è una preghiera che fa esplodere tutti “i modi”, travolge tutti gli schemi. La pedagogia di Gesù sulla preghiera è la più esigente. Proprio perché non si accontenta delle parole, delle formule, ma esige la vita, pretende il coinvolgimento della persona. Lui non insegna “una preghiera”. Abbiamo il diritto di disturbarlo soltanto se vogliamo imparare a pregare, carpire il Suo segreto.
Se accettiamo il rischio di nascere “uomini di preghiera”.
Non abbiamo tanto bisogno di preghiere nuove, ma di essere “nuovi nella preghiera”. Nuovi nel modo di interpretare il senso della preghiera nella nostra avventura di Cristiani. Molti sono in grado di offrirci preghiere “nuove”. Soltanto Uno ci insegna a non fabbricare preghiere, ma a scoprire la preghiera, crearla. Soltanto Lui ci invita a superare quella distanza, per entrare nello spazio della Sua solitudine e così sentirci un po’ meno estranei…..
“… Quando pregate, non siate simili agli ipocriti che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze, per essere visti dagli uomini. In verità vi dico: -Hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto e il Padre tuo che vede nel segreto ti ricompenserà. Pregando poi, non sprecate parole come i pagani, i quali credono di venire ascoltati a forza di parole. Non siate dunque come loro, perché il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele crediate. Voi dunque pregate così: – Padre nostro…” (Mt. 6.6)
La preghiera del Cristiano, quindi, si caratterizza per l’obbedienza a quell’inquietante invece. NÈ come gli ipocriti, NÈ come i masticatori di formule, la preghiera vera, autentica, si costruisce sull’invece. Ossia sulla contrapposizione al formalismo e al vuoto rimbombante, all’esibizionismo irrilevante (agli occhi del Padre) ed alla quantità fragorosa inefficace. Una preghiera basata sull'”invece” evita sia lo spettacolo, sia la ripetizione meccanica, che invece di produrre l’accoglienza, provoca il fastidio. Vediamo di misurarci su alcuni aspetti di quello scomodo “tu invece”…
C’E’ CHI RECITA LE PREGHIERE E C’E’ CHI PREGA.
Le due categorie di persone sono separate da un abisso!
Una è attestata sul versante aspro del dovere. L’altra sulla sponda vertiginosa ed inebriante dell’amore.
Ci sono i recitanti. Ed esistono, per fortuna, gli oranti.
I primi sono soddisfatti quando hanno macinato con le labbra tutta la serie prescritta di formule. Gli altri avvertono l’esigenza di stabilire il contatto del cuore. Per gli uni la preghiera…sono le preghiere, le devozioni, le pratiche. Per gli altri, la preghiera è un dialogo con un Tu. Il recitante è preoccupato del numero. All’orante sta a cuore l’intensità della comunione, la qualità della relazione. Il recitante si aggrappa alle parole; l’orante ha molta familiarità anche con il silenzio. Per il primo la domanda fondamentale è: “Che cosa devo dire?” L’altro considera la preghiera come possibilità inaudita di un “faccia a faccia” atteso e desiderato. È quindi sorpresa, gioia, apertura! Sul versante delle preghiere domina la noia, la monotonia, il “mestiere” sulle labbra. Su quello della preghiera s’impone la vita, la spontaneità, la freschezza (che non vuol dire facilità, e neppure assenza di sforzo).
Quando si recita, la preghiera è caratterizzata…
dalla velocità. A sentire i componenti di certe assemblee che “dicono le preghiere”, par di udire dei sassi che precipitano fragorosamente giù per la china di una montagna. Voci che si rincorrono affannosamente, si sopravanzano, fino al tonfo finale e sospirato dell’ “amen”.
dalla velocità. A sentire i componenti di certe assemblee che “dicono le preghiere”, par di udire dei sassi che precipitano fragorosamente giù per la china di una montagna. Voci che si rincorrono affannosamente, si sopravanzano, fino al tonfo finale e sospirato dell’ “amen”.
L’orante, invece, non è toccato dalla fretta. Sale lentamente, con calma, con passo leggero, su per il sentiero della tranquilla contemplazione. Sarebbe assurdo correre. Lui respira profondamente. Sosta ad osservare il panorama circostante, familiare e sorprendente. Ogni volta lo scopre, lo inventa, quasi fosse la prima volta. Ed è capace di meraviglia, di affascinanti scoperte. Il recitante percorre la preghiera come un’autostrada, dove tutto è previsto, regolamentato, segnalato.
L’importante è arrivare. Lui ha pagato il pedaggio! L’orante esplora il bosco sconfinato della preghiera. Essenziale è scoprire una Presenza.
Lui ha l’impressione di ricevere la preghiera in dono.
Uno “sa” le preghiere. L’altro non sa dove lo porta la preghiera.
Se vengono solo recitate le preghiere sono un “suono”. La preghiera autentica è Luce.
Il recitante, quando ha esaurito la dose prescritta di preghiere, si sente a posto. L’orante prova un senso indicibile di pace.
Il primo ha regolato i conti. Il secondo si è arricchito. La linea di separazione è proprio quell’insopprimibile “Tu invece….”
L’atteggiamento fondamentale è quello dell’attesa. Chi non sa attendere, si dimostra non idoneo alla preghiera, negato per la preghiera. L’attesa richiede un’applicazione tale da scoraggiare i faciloni, gli improvvisatori, i nevrotici collezionisti di emozioni. Attendere significa letteralmente “tendere verso”.
L’attesa è una posizione che prende, occupa la persona nella sua totalità. L’attesa realizza una stupefacente armonia ed unità della persona. Nella preghiera, interpretata come attesa, la creatura viene afferrata dall’ essenziale. All’apparenza, una persona che aspetta dà l’impressione di perdere tempo, di non avere niente da fare. L’attesa della preghiera, invece, è positiva. È pienezza. Attività. Incontro anticipato.
Una persona che attende, non ha tempo per altre cose. È totalmente ed esclusivamente occupata nell’attesa.
La preghiera, oltre a farci frequentare “un altro mondo”, ci proietta in un “altro tempo”. Il tempo di Dio, i suoi ritmi, non sono i nostri”…Ai Tuoi occhi, mille anni sono come il giorno di ieri che è passato, come un turno di veglia nella notte…” (Salmo 90,4) Pietro sottolineerà la stessa “sfasatura”: “…Davanti al Signore un giorno è come mille anni e mille anni come un giorno solo…” ( 2 Pietro 3,8)
All’ansia di arrivare, deve sostituirsi la capacità di ascoltare. L’attesa è fatta di calma, pace, pazienza, libertà, tempi lunghi, capacità di resistere allo sconforto e alla delusione.
È necessario rendersi conto che nella preghiera niente viene concesso alla velocità, alla frenesia, all’agitazione. Niente arriva nel tempo che stabiliamo noi.
Dio si fa attendere. Dio sovente è in ritardo, ma soltanto sulla nostra fretta, non sulla Sua promessa. Tra noi e Lui si spalanca una distanza infinita. Non siamo noi che la copriamo. Soltanto Lui la può annullare. È Dio che si fa vicino. Nessun passo, da parte nostra, ci può condurre a raggiungerlo.
Sul nostro versante, l’unica possibilità che abbiamo è l’attesa.
Soltanto l’attesa riduce, in un certo senso, quella distanza abissale. È Dio che si muove verso di noi nella preghiera.
Attendere vuol dire, paradossalmente, essere consapevoli che… siamo attesi! Proprio così: sono io che aspetto e, nello stesso tempo, sono atteso. Nell’attesa rinunciamo a disporre del tempo. È il tempo che dispone di noi. Il tempo dell’attesa è il tempo della speranza. Si attende perché si spera. L’attesa è un ponte lanciato verso ciò che non c’è ancora, ma di cui sentiamo struggente il bisogno, verso una presenza possibile di cui non possiamo fare a meno. “L’anima mia attende il Signore più che le sentinelle l’aurora” (Salmo 130,6). Molto spesso ci aspettiamo un Dio “sorprendente”, che esaudisca ogni nostra richiesta in tempi brevi, secondo le nostre aspettative. Al contrario, il Dio “sorprendente” è l’opposto di un Dio ostaggio dei nostri piani. “Le vostre vie non sono le Mie vie” (Is.55,8).
Dovremmo preferire un Dio che ci sorprende ad un Dio che ci accontenta; dovremmo fidarci più delle Sue risposte che delle nostre domande, del Suo dono che delle nostre richieste.
Dovremmo fidarci di più delle Sue meraviglie che dei nostri desideri!
La vera preghiera non ci consegna un Dio alla nostra portata, largamente prevedibile, ma ci consente di aprire uno spiraglio sull’infinita libertà del Suo Amore.
LA PREGHIERA DEL “POVERO”
La povertà rappresenta un atteggiamento fondamentale nella preghiera. Povertà come manifestazione dei proprio nulla ed esplorazione, coraggiosa e discreta, dei tutto di Dio. Se l’attesa è espressione della speranza, la povertà è espressione di fede. Nella preghiera è povero colui che si riconosce dipendente da un altro. Rinuncia a fondare la vita su se stesso, sui propri progetti, le proprie risorse, le proprie sicurezze, ma le aggancia a Dio.
Il povero rinuncia a fare dei conti. Preferisce “contare” su Qualcuno! Il povero si fida dei Dio che interviene, ma anche del Dio che non si fa sentire. Del Dio che si manifesta, come del Dio che non dà alcun segno… Si tratta di arrendersi ad un Dio che ti dice quando è ora di partire ma non ti rivela quando arriverai. L’unica costante è la provvisorietà. L’unico conforto la precarietà. L’unica ricchezza una promessa. L’unico fatto una Parola.
L’orante non è un benestante dello spirito, ma un accattone inguaribile, che elemosina frammenti, schegge di luce.
La sua sete lo fa diffidare delle cisterne, ma lo porta a ricercare incessantemente la sorgente.
La preghiera non è degli “arrivati”, ma dei pellegrini, la cui bisaccia sforacchiata non contiene un gruzzolo che aumenta, bensì il necessario che si esaurisce la sera stessa.
Soltanto chi è povero di tempo riesce a regalare del tempo a Dio!
Difficilmente chi possiede del tempo in abbondanza trova tempo per pregare. Al massimo, si limita a dare gli scarti. Il povero compie il miracolo di donare a Dio, nella preghiera, il tempo che non ha. Il tempo necessario, non quello superfluo. E lo dà con larghezza, senza misurare. Attraverso la preghiera, il povero si fida dell’intervento di Dio “nell’istante”.
“Quando vi condurranno davanti alle sinagoghe, ai magistrati e alle autorità, non preoccupatevi come discolparvi, o che cosa dire; perché lo Spirito Santo vi insegnerà in quel momento ciò che bisogna dire” (Lc. 12,11).
La preghiera povera è la preghiera sobria, discreta, dimessa.
Il povero che prega non ha paura della debolezza, non si preoccupa del numero, della quantità, del successo. Il povero che prega scopre la forza della debolezza! Il povero non cerca gratificazioni emotive nella preghiera. Né elemosina facili consolazioni. Sa che l’essenza della preghiera non consiste nella gioia sensibile. Il povero cerca Dio anche quando Dio lo delude, si nasconde, sparisce nella notte.
Lui sta lì, senza cedere alla stanchezza, aggrappato alla volontà più che al sentimento, nella fedeltà di un amore disposto ad accettare qualunque prova. Sa che l’incontro, qualche volta, si realizza nella festa. Ma, più spesso, si consuma in una veglia interminabile.
La “notte oscura”, il freddo, l’angoscia, la non risposta, la lontananza, l’abbandono, il non capire nulla, sono il “sì” più costoso che il povero è chiamato a dire nella preghiera.
Il povero si ostina a tenere aperta la porta a questo Dio che si nega. La lampada accesa non ha lo scopo di riscaldare ma di segnalare una fedeltà sofferta. Se non accetti che la preghiera ti spogli delle apparenze, ti liberi dagli ingombri, ti prenda tutte le cose inutili, ti strappi le maschere, non sperimenterai mai che cos’è la preghiera.
La preghiera è un’operazione di perdita. Non si prega perché si vuole avere. Ma perché si acconsente a perdere!
Nella preghiera Dio ti fa scoprire, prima di tutto, ciò di cui non hai bisogno, di cui devi fare a meno. C’è un “troppo” che deve lasciar posto all’essenziale. C’è un “di più” che deve dare spazio all’unico necessario. Pregare non significa accumulare, ma spogliarsi, per ritrovare la nudità e la verità del proprio essere. La preghiera è un lungo, paziente lavoro di semplificazione della propria vita.
Pregare = voce del verbo sottrarre!!
Fino a far annegare la nostra minuscola isola di soddisfazione, per lasciarci sommergere dall’oceano di Dio, dai progetti folli del Suo Amore; fino ad ottenere il miracolo del nulla che sfiora l’Infinito!
Il tutto di Dio si colloca unicamente in quel niente, che è uno spazio, aperto dalle mani vuote e da un cuore puro.
Diciamo che: ATTESA = SPERANZA; POVERTA’ = FEDE e aggiungiamo anche: INSODDISFAZIONE = DESIDERIO.
La preghiera è destinata a coloro che non si rassegnano al fatto che le cose debbano restare così come stanno.
Quando un uomo si confessa insoddisfatto e desidera tendere verso qualcos’altro, allora è adatto per la preghiera.
Allorché uno è disposto a perdere tutto per tentare l’avventura, per rischiare il nuovo, per abbandonare le abitudini, allora la preghiera fa per lui. La preghiera è per chi non si arrende!
Qualcuno ha definito il Cristiano “un contento insoddisfatto”.
Contento di ciò che il Padre è per lui e fa per lui, insoddisfatto del suo modo di essere figlio, fratello e cittadino del Regno. La preghiera è infatti, allo stesso tempo, causa di gioia e principio d’inquietudine. Pienezza e tormento. Tensione tra il “già” e il “non ancora”. Sicurezza e ricerca.
Pace e…brusco richiamo a ciò che resta da fare!
Nella preghiera restiamo sbalorditi di fronte alla grandiosità illimitata dell’invito del Padre, ma avvertiamo la sproporzione tra la Sua offerta e la nostra risposta.
Si imbocca la strada della preghiera solo dopo aver coltivato germi d’inquietudine. Qualcuno di noi è soddisfatto quando “ha detto le preghiere”. Dobbiamo scoprire, invece, che l’insoddisfazione costituisce la condizione della preghiera.
“Guai a voi che ora siete sazi!” (Luca 6.25)
LA PREGHIERA COMUNITARIA: C’E’ BISOGNO DI “ACCORDO”
Il credente vive necessariamente la sua esperienza di fede in un tessuto comunitario. Essere Cristiano significa far parte di un popolo, appartenere ad una famiglia. Col Battesimo io vengo inserito nella Chiesa che è, appunto, una “comunità orante”. Non ho ancora dato nulla. Non ho fatto nulla. Eppure, subito, ricevo.
Prima ancora che io ne diventi consapevole, vivo, partecipo della preghiera degli altri. Vengo nutrito, cresco, mi sviluppo grazie alla preghiera della comunità.
Io sono, prima di tutto, dono, frutto della preghiera altrui.
Viene il momento in cui anch’io devo donare, recare il mio apporto per questa ricchezza di famiglia. Dare e ricevere.
“…In verità vi dico: se due di voi sopra la terra si accorderanno per domandare qualunque cosa, il Padre Mio che è nei cieli ve la concederà. Perché dove sono due o tre riuniti nel Mio Nome, Io sono in mezzo a loro…” (Matteo 18,19-20 ).
La comunità riunita nel nome di Gesù realizza la Sua presenza sulla terra, diventa tempio vivo, luogo della Sua dimora ( “…Io sono in mezzo a loro…”). Questa preghiera comune è irresistibile, ha la certezza di essere ascoltata.
L’essere insieme nella preghiera, al di là delle cose che si possono ottenere, vuole esprimere una realtà importante: dal momento che intendiamo rimanere attaccati al Padre, restiamo attaccati fra di noi. Una frattura, una incrinatura in senso orizzontale, crea una spaccatura anche in senso verticale. La comunicazione interrotta tra i figli, taglia la comunicazione col Padre. Quindi la preghiera comune manifesta la volontà di assicurare i collegamenti, di rimanere in comunione.
Attenzione alle note false!
Certo, risulta fondamentale quell’indicazione di Gesù: “…si accorderanno…”: Prima dell’esecuzione di un brano musicale si accordano gli strumenti. Nella preghiera comunitaria -che dovrebbe essere la sinfonia più prodigiosa- non ci si può limitare a sintonizzare le voci, produrre le stesse parole, compiere gli stessi gesti, assumere le stesse posizioni esteriori. È il cuore che va sintonizzato!
Si deve realizzare, precisamente, l’accordo, che è questione di cuore, non di bocca! Le idee, le mentalità, i punti di vista possono essere “sfasati”, dissonanti, rispetto a quelli del “compagno di preghiera”. Queste dissonanze a livello di testa non impediscono la sinfonia. L’essenziale, per la preghiera, è l’accordo, ossia mettere il cuore in armonia con quello dell’altro. La preghiera stonata, non vera, e che quindi non raggiunge il Padre, è quella dove qualche cuore batte egoisticamente, rifiutando l’altro, condannandolo, mantenendo le distanze, conservando risentimenti o amarezza.
Le note stridenti più pericolose non sono solo quelle che si avvertono all’esterno, ma quelle che si producono dentro, in profondità. E spengono la preghiera. Anzi, le impediscono di nascere. Le note false, abitualmente impercettibili, non sono altro che il non-amore. È questione di fraternità. Sono figlio, ma anche fratello! Preghiera personale e preghiera comunitaria, lungi dall’essere in opposizione, risultano complementari. Anzi, l’una ha bisogno dell’altra, rafforza l’altra. Quanto più io vivo fino in fondo le esigenze della preghiera comune, tanto più scopro l’esigenza del rapporto personale, irripetibile, con Dio. E se comprendo veramente le esigenze della preghiera comunitaria, questa mi fa avvertire, prepotentemente, il bisogno della preghiera a tu per tu col Padre (che resta, in ogni caso, “nostro”).
Condivisione dei pesi “…Portate i pesi gli uni degli altri, così adempirete la Legge di Cristo…” (Galati 6.2 ).
Questo scambio, questa condivisione dei pesi, si realizza soprattutto nella preghiera comune. Non tutti sentiamo alla stessa maniera. Non tutti ci troviamo nelle stesse condizioni. Qualcuno sta nella gioia ed altri sono attanagliati nell’angoscia. Uno è sereno e il vicino è tormentato. Lo slancio degli uni si accompagna alla fiacchezza degli altri. Ebbene, tutto viene messo in comune. La forza sostiene la debolezza e le debolezze, unite, diventano forza. La ricchezza supplisce alla povertà o, meglio, tutto diventa povertà comune!
Non conta lo stato d’animo del singolo. Non ha importanza che qualcuno segni il passo o trascini i piedi. La preghiera ricompone i vari frammenti diversi fra loro e li solleva verso Dio, formando un insieme unitario. L’equilibrio viene garantito non dalla perfezione di pochi, ma dall’essere tutti mancanti in qualcosa. Il pregare insieme implica l’accettazione dell’altro. E se c’è qualche impedimento, bisogna rimuoverlo. Se c’è qualche muro di separazione bisogna abbatterlo. Se si stende qualche ombra è necessario dissiparla.
“…Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate…” (Marco 11,25).
La preghiera comunitaria diventa possibile se passa attraverso la riconciliazione, la pace. Gli incidenti inevitabili, i conflitti, i contrasti, lacerano sovente il delicato tessuto dei nostri rapporti col prossimo. L’unità è sempre da rifare, dopo le spaccature e le incrinature. Ora, la ricomposizione nell’unità, non è un fatto emotivo, sentimentale o semplicemente formale, di facciata. Implica soprattutto la capacità di perdonare e di chiedere perdono. C’è bisogno di qualche segno di accoglienza reciproca. Occorre accorgersi degli altri! Oltre a dire il nostro “sì” a Dio, dobbiamo dire “sì” a chi ci è accanto.
L’ “amen” della fede deve tradursi anche nell’ “amen” della fraternità. Non posso illudermi, nella preghiera comune, di essere attento a Dio se non sono attento a chi mi sta a contatto di gomiti.
Per incontrare bisogna incontrarsi. Per arrivare occorre unirsi.
Risulta più facile, indubbiamente, pregare per gli altri che pregare con gli altri. Il Padre gradisce essere pregato da figli che si “mettono d’accordo”.
LA PREGHIERA COMUNITARIA: PREGARE “AL PLURALE”
Gesù per primo ci ha insegnato a pregare al plurale.
La preghiera-modello del “Padre nostro” è tutta al plurale. È curioso questo fatto: Gesù ha esaudito tante preghiere fatte “al singolare”, ma quando Lui insegna a pregare, ci dice di pregare “al plurale”. Ciò significa, forse, che Gesù accetta questo nostro bisogno di gridare a Lui nelle nostre personali necessità, ma ci avverte che è preferibile andare sempre a Dio con i fratelli.
A motivo di Gesù, che vive in noi, noi non esistiamo più da soli, siamo individui responsabili dei nostri atti personali, ma portiamo in noi anche la responsabilità di tutti i fratelli.
Tutto il bene che è in noi, in gran parte lo dobbiamo agli altri; Cristo perciò ci invita a mitigare il nostro individualismo nella preghiera. Finchè la nostra preghiera è molto individualista, ha poco contenuto di carità, perciò ha poco sapore cristiano.
L’ affidare ai fratelli i nostri problemi è un po’ come morire a noi stessi, è un fattore che apre le porte ad essere esauditi da Dio.
Il gruppo ha una potenza particolare su Dio e Gesù ce ne dà il segreto: nel gruppo unito nel Suo Nome, c’è anche Lui presente, che prega. Occorre però che il gruppo sia “unito nel Suo Nome”, cioè unito fortemente nel Suo Amore. Un gruppo che ama è strumento idoneo a comunicare con Dio e a ricevere il flusso dell’Amore di Dio su chi ha bisogno di preghiera: “la corrente d’Amore ci fa capaci di comunicare col Padre ed ha potere sui malati”. Anche Gesù, nel momento cruciale della Sua vita, ha voluto i fratelli a pregare con Lui: al Getsemani sceglie Pietro, Giacomo e Giovanni “perché stessero con Lui a pregare”.
La preghiera Liturgica poi, ha una potenza ancora più grande, perché ci immerge nella preghiera di tutta la Chiesa, attraverso la presenza di Cristo. Bisogna riscoprire questa enorme potenza d’intercessione, che investe tutto il mondo, coinvolge la terra e il cielo, il presente e il passato, i peccatori e i Santi. La Chiesa non è per una preghiera individualista: sull’esempio di Gesù formula tutte le preghiere al plurale. Pregare per i fratelli e con i fratelli deve essere un segno marcato della nostra vita cristiana.
La Chiesa non sconsiglia la preghiera individuale: i momenti di silenzio che propone nella Liturgia, dopo le letture, l’omelia e la Comunione, stanno appunto ad indicare quanto le stia a cuore l’intimità di ogni fedele con Dio.
Ma il suo modo di pregare ci deve far decidere a non isolarci dai bisogni dei fratelli: preghiera individuale, sì, ma mai preghiera egoistica!
Gesù ci suggerisce di pregare in modo particolare per la Chiesa. Lui stesso l’ha fatto, pregando per i Dodici: “Padre … Io prego per loro… per coloro che mi hai dato, perché sono Tuoi. Padre, custodisci nel Tuo Nome coloro che mi hai dato, perché siano una cosa sola, come noi ” (Gv.17,9). L’ha fatto per la Chiesa che sarebbe nata da loro, ha pregato per noi: “Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in Me” (Gv.17,20).
Gesù inoltre ha dato l’ordine preciso di pregare per l’incremento della Chiesa: “…Pregate il padrone della messe che mandi operai nella Sua messe…” (Mt. 9,38). Gesù ha comandato di non escludere nessuno dalla nostra preghiera, nemmeno i nemici: “Amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori” (Mt. 5,44).
Occorre pregare per la salvezza dell’umanità. È il comando di Cristo! Ha messo questa preghiera proprio nel “Padre nostro”, perché fosse la nostra preghiera continua: venga il Tuo Regno!
Le regole d’oro della preghiera comunitaria
1. PERDONO (sgombro il cuore da ogni rancore affinché, durante la preghiera, niente ostacoli la libera circolazione dell’Amore)
2. MI APRO all’azione dello SPIRITO SANTO (affinché, lavorando sul mio cuore, possa portare i Suoi frutti)
3. RICONOSCO chi mi sta accanto (accolgo il fratello nel cuore, che significa: sintonizzo la mia voce, nella preghiera e nel canto, con quella degli altri; lascio all’altro il tempo di esprimersi nella preghiera, senza mettergli fretta; non faccio prevalere la mia voce su quella del fratello)
4. NON HO PAURA DEL SILENZIO = non ho fretta ( la preghiera necessita di pause e di momenti d’introspezione)
5. NON HO PAURA DI PARLARE (ogni mia parola è dono per l’altro; non fa comunità chi vive passivamente la preghiera comunitaria)
La preghiera è dono, accettazione, condivisione, servizio.
Il luogo privilegiato per cominciare a pregare con gli altri è la famiglia. La famiglia cristiana è una comunità che simboleggia l’amore di Gesù per la sua Chiesa, come dice S. Paolo nella lettera agli Efesini (Ef. 5.23). Fratel Carlo Carretto, uno dei più grandi maestri di preghiera e contemplativo del nostro tempo, ci ricorda che “… Ogni famiglia dovrebbe essere una piccola chiesa!….”
LA PREGHIERA PERSONALE
La preghiera personale, nel Vangelo, si colloca in un luogo preciso: “Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto” (Mt. 6,6). L’ invece sottolinea un atteggiamento opposto a quello degli “ipocriti, che amano pregare stando ritti nelle sinagoghe e negli angoli delle piazze”.
La parola d’ordine è “nel segreto”. A proposito della preghiera, c’è la contrapposizione marcata tra “piazza” e “camera”: Ossia tra ostentazione e segretezza. Esibizionismo e pudore. Frastuono e silenzio. La parola chiave, naturalmente, è quella che indica il destinatario della preghiera: “il Padre tuo…”.
La preghiera cristiana è basata sull’esperienza della paternità divina e della nostra figliolanza. La relazione da stabilire, quindi, è quella tra Padre e figlio. Ossia qualcosa di familiare, intimo, semplice, spontaneo. Ora, se nella preghiera cerchi gli sguardi altrui non puoi pretendere di attirare su di te anche l’attenzione di Dio.
Il Padre, “che vede nel segreto” non ha nulla a che fare con una preghiera destinata al pubblico, offerta in spettacolo devoto, edificante. Quello che conta è la relazione col Padre, il contatto che stabilisci con Lui.
La preghiera è vera soltanto se riesci a chiudere la porta, ossia a lasciar fuori qualsiasi altra preoccupazione che non sia quella d’incontrare Dio. L’amore – e la preghiera o è dialogo d’amore o non è nulla – va riscattato dalla superficialità, custodito nel segreto, sottratto agli sguardi indiscreti, protetto dalla curiosità.
Gesù suggerisce la frequentazione della “camera” tameion ), quale luogo sicuro per la preghiera personale dei “figli”: Il tameion era il locale della casa inaccessibile agli estranei, ripostiglio sotterraneo, rifugio dove si custodisce il tesoro, o, semplicemente, cantina.
I monaci antichi hanno preso alla lettera questa raccomandazione del Maestro ed hanno inventato la cella, luogo della preghiera individuale. Qualcuno fa derivare la parola cella da coelum.
Ossia, l’ambiente dove uno prega è una specie di cielo trasferito quaggiù, un anticipo della felicità eterna.
Noi, non solo siamo destinati al cielo, ma non possiamo vivere senza cielo. La terra diventa abitabile per l’uomo solo quando ritaglia ed accoglie almeno un pezzetto di cielo. Il grigio cupo della nostra esistenza di quaggiù può essere riscattato da regolari “trasfusioni d’azzurro”! La preghiera, appunto.
Altri affermano invece che la parola cella sia in rapporto al verbo celare (= nascondere). Ossia il luogo della preghiera nascosta, consegnata unicamente all’attenzione del Padre.
Intendiamoci: Gesù, quando parla del tameion, non propone una preghiera all’insegna dell’intimismo, di un individualismo compiaciuto ed esasperato. Il “Padre tuo”; è “tuo” soltanto se è di tutti, se diventa il Padre “nostro”. La solitudine non va confusa con l’isolamento. La solitudine risulta, necessariamente comunionale. Chi si rifugia nel tameion ritrova il Padre, ma anche i fratelli. Ti sottrae alla piazza, ma ti colloca al centro del mondo.
In piazza, nella sinagoga, puoi portare una maschera, puoi recitare parole vuote. Ma per pregare devi renderti conto che Lui vede quello che porti dentro. Quindi è proprio il caso di chiudere accuratamente la porta ed accettare quello sguardo in profondità, quel dialogo essenziale che ti rivela a te stesso.
° Pregare di più o pregare meglio?
Un equivoco sempre duro a morire è quello della quantità. In troppa pedagogia sulla preghiera domina ancora la preoccupazione, quasi ossessiva, del numero, delle dosi, delle scadenze.
È naturale allora che molte persone “religiose” compiano il goffo tentativo di far pendere la bilancia dalla loro parte, aggiungendo pratiche, devozioni, pii esercizi. Dio non è un contabile!
“…Lui sapeva quello che c’è in ogni uomo…” (Gv 2,25)
O, secondo un’altra traduzione: “…ciò che l’uomo porta dentro…” Dio riesce a vedere soltanto quello che l’uomo “porta dentro” quando prega. Una mistica d’oggi, Suor Maria Giuseppina di Gesù Crocifisso, Carmelitana scalza, ammoniva: ” Date il cuore a Dio nella preghiera, anziché tante parole!”
Si può e si deve pregare di più, senza per questo moltiplicare le preghiere. Il vuoto di preghiera, nella nostra vita, non lo si colma con la quantità, ma con l’autenticità e l’intensità della comunione.
Io prego di più quando imparo a pregare meglio.
Devo crescere nella preghiera, piuttosto che aumentare il numero delle preghiere. Amare non vuol dire ammucchiare la maggior quantità di parole, ma stare davanti all’Altro nella verità e trasparenza del proprio essere.
° Pregare il Padre
“…Quando pregate, dite: Padre…” (Lc 11,2).
Gesù ci invita ad usare esclusivamente questo nome nella preghiera: Padre. Anzi: Abbà! (papà).
“Padre” racchiude tutto ciò che possiamo esprimere nella preghiera. E contiene anche “l’inesprimibile”. Continuiamo quindi a ripetere, come in una litania incessante: “Abbà…abbà…”
Non è necessario aggiungere altro. Sentiremo crescere in noi la fiducia. Avvertiremo, attorno a noi, la presenza impegnativa di un numero sterminato di fratelli. Soprattutto, verremo afferrati dallo stupore di essere figli.
° Pregare la Madre
Quando pregate dite anche: ” Madre! “
Nel quarto vangelo, Maria di Nazareth sembra aver perso il proprio nome. Infatti viene indicata esclusivamente col titolo di “Madre”. La “preghiera del nome di Maria” non può essere che questa: “Mamma … mamma…” Neppure qui esistono limiti. La litania, sempre uguale, può prolungarsi all’infinito, ma arriva certamente il momento in cui, dopo l’ultima invocazione “mamma”, avvertiamo la risposta tanto attesa, eppure sorprendente: “Gesù!”
Maria conduce sempre al Figlio.
° La preghiera come racconto confidenziale
“Signore, ho qualcosa da raccontarti. Ma è un segreto tra Te e me”.
La preghiera confidenziale può iniziale più o meno così e poi snodarsi sotto forma di racconto. Piano, semplice, spontaneo, in una tonalità dimessa, senza reticenze e anche senza amplificazioni.
È molto importante questo tipo di preghiera nella nostra società all’insegna dell’apparire, dell’esibizione, della vanità. L’amore ha bisogno soprattutto di umiltà, di pudore. L’amore non è più amore senza un contesto di segretezza, senza la dimensione di riservatezza. Ritrova, dunque, nella preghiera, la gioia del nascondimento, della non-appariscenza. Illumino veramente se riesco a nascondermi.
° Ho voglia di “litigare” con Dio
Abbiamo paura di dire al Signore, o riteniamo che sia sconveniente, tutto ciò che pensiamo, che ci tormenta, che ci agita, tutto ciò di cui non siamo affatto d’accordo con Lui. Pretendiamo di pregare “nella pace”. E non vogliamo prendere atto del fatto che, prima, bisogna attraversare la bufera. Si arriva alla docilità, all’obbedienza, dopo essere stati tentati dalla ribellione.
I rapporti con Dio diventano sereni, pacati, solo dopo che sono stati “burrascosi”. Tutta la Bibbia propone con insistenza il tema della contesa dell’uomo con Dio. L’Antico testamento ci presenta un “campione della fede”, quale Abramo, che si rivolge a Dio con una preghiera che sfiora la temerarietà. La stessa preghiera di Mosè, talvolta, assume le caratteristiche di una sfida. Mosè, in certe circostanze, non esita a protestare con foga davanti a Dio. La sua preghiera dimostra una familiarità che ci lascia sconcertati.
Anche Gesù, nel momento della prova suprema, si rivolge al Padre dicendo: ” Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mc. 15.34). Sembra quasi un rimprovero. Tuttavia occorre notare il paradosso: Dio resta “mio” anche se mi ha abbandonato.
Anche un Dio lontano, impassibile, che non risponde, non si commuove e mi lascia solo in una situazione impossibile, è sempre “mio”. Meglio lamentarsi che fingere la rassegnazione.
La tonalità del lamento, con accenti drammatici, è presente in parecchi Salmi. Scoccano due domande tormentose: Perché? Fino a quando?
I Salmi, proprio perché sono espressione di una fede robusta, non esitano ad impiegare questi accenti, che apparentemente infrangono le regole della “buona educazione” nei rapporti con Dio. Qualche volta è solo opponendosi a lungo che si riesce a cadere, finalmente e felicemente arresi, tra le braccia di Dio.
° Pregare come una pietra
Ti senti freddo, arido, svogliato. Non hai nulla da dire. Un grande vuoto dentro. La volontà inceppata, i sentimenti congelati, gli ideali dissolti. Non hai voglia neppure di protestare.
Ti sembra inutile. Non sapresti nemmeno cosa chiedere al Signore: non ne vale la pena. Ecco, devi imparare a pregare come un sasso. Meglio ancora, come un macigno. Limitarti a stare lì, come sei, col tuo vuoto, la nausea, l’avvilimento, la non voglia di pregare.
Pregare come un sasso significa semplicemente mantenere la posizione, non abbandonare il posto “inutile”, esserci senza motivo apparente. Il Signore, in certi momenti che tu sai e che Lui sa meglio di te, si accontenta di vedere che stai lì, inerte, a dispetto di tutto.
Importante, almeno qualche volta, non essere altrove.
° Pregare con le lacrime
È una preghiera silenziosa.
Le lacrime interrompono sia il flusso delle parole che quello dei pensieri, e perfino quello delle proteste, dei lamenti.
Dio ti lascia piangere. Prende sul serio le tue lacrime. Anzi, le conserva, gelosamente, ad una ad una. Ce lo assicura il Salmo 56: “…Le mie lacrime nell’otre Tuo raccogli…” Neppure una va persa. Neppure una viene dimenticata. È il tuo tesoro più prezioso. E sta in buone mani. Te lo ritroverai sicuramente.
Le lacrime denunciano che sei sinceramente dispiaciuto, non per aver trasgredito una legge, ma per aver tradito l’amore.
Il pianto è espressione di pentimento, serve a lavarti gli occhi, a purificare lo sguardo.
Dopo, vedrai con più chiarezza il cammino da percorrere. Identificherai con maggior attenzione i pericoli da evitare. “…Beati voi che piangete…” (Lc 7.21). Con le lacrime non pretendi da Dio delle spiegazioni. Gli confessi che ti fidi!
LA PREGHIERA DI INTERCESSIONE
Il coraggio di “mettersi in mezzo”
Il verbo latino “intercedere” significa, alla lettera, “cedere” (andare, passare) ed “intee’ (attraverso). Ossia: interporsi, frapporsi, mettersi in mezzo, intervenire a favore di qualcuno. Ma anche: rivolgersi insistentemente a qualcuno con domande, preghiere, suppliche.
Il vocabolo, successivamente, è venuto ad indicare, genericamente, la preghiera per gli altri.
1) Atteggiamenti di fondo
Perché la preghiera d’intercessione sia autentica, occorre che l’orante adotti ed esprima degli atteggiamenti di fondo essenziali:
– consapevolezza di un ruolo “sacerdotale” di mediazione
– senso di solidarietà con qualcuno
– coraggio ed umiltà insieme
Bisogna avere umiltà audace e un’audacia umile.
2) Importanza del “chissà”?
Col “forse”, “può darsi”, “chissà”, l’avvenire rimane aperto alla Grazia e alle sorprese inaudite dell’amore di Dio, ricco di misericordia.
La regola di Dio è l’eccezione.
Un’altra storia, impossibile, diventa possibile grazie al “forse”.
La preghiera d’intercessione nasce soltanto se uno è dotato di fantasia dell’amore.
Il “forse” ci introduce nell’imprevedibilità divina.
3) Servizio della speranza
La preghiera d’intercessione va vista come il varco aperto dalla speranza, attraverso i fori della Croce di Cristo…
4) Servizio della Carità
La preghiera d’intercessione diventa la forma più efficace del servizio della carità. Più precisamente, assume la dimensione di un amore universale, che può raggiungere chiunque.
Con le opere della carità io non riesco ad arrivare a tutti gli infelici, i poveri, i sofferenti… Con la preghiera d’intercessione, invece, il mio amore si dilata a misura del mondo.
5) Complici della misericordia di Dio
Attraverso la preghiera d’intercessione il Signore ci associa alla Sua misericordia, ci dà la possibilità di essere generosi e magnanimi come Lui.
6) Salvati in due
La preghiera d’intercessione non è solo in funzione della salvezza altrui, ma anche dell’orante stesso; non è soltanto un favore che noi facciamo agli altri, ma un dono estremo che Dio ci offre per salvarci, per farci diventare un po’ più buoni, per dilatare il nostro cuore alla misura del Suo amore.
7) Protagonisti della storia
Grazie alla preghiera d’intercessione noi, insieme a Dio, che resta il Protagonista Unico, costruiamo, rifacciamo e scriviamo un’altra storia. Sia pure in maniera nascosta, invisibile, sotterranea.
8) E, dopo, tutto resta da fare!
Naturalmente dobbiamo convincerci che, dopo aver pregato per gli altri, non abbiamo esaurito il nostro compito.
Molto resta da fare: una visita, una lettera, una telefonata, un fiore, un dono, un po’ di attenzione… La preghiera può tutto, ma non è tutto. La stessa preghiera d’intercessione non è “conclusiva”, ma “introduttiva”. Ci introduce, ci spinge ad altri interventi, stavolta dal basso… al basso…
Intercessione di Cristo
Numerosi testi del Nuovo Testamento ci presentano Cristo che, asceso alla destra del Padre, svolge il ruolo di grande Intercessore a nostro favore. Ecco i principali: Gv 17,20; Lc 2,32; Lc 23,34; Rm 8,34; 1 Gv 2,1; Eb 7,24; Eb 9,24.
In questi ultimi due testi, il ruolo d’intercessore di Cristo è talmente legato al sacrificio della Croce, da coincidere con la Sua presenza presso il Padre e l’offerta eterna che ha fatto del proprio sangue.
Intercessione dello Spirito
Ci ricorda San Paolo: “Lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché Egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio” (Rm 8,26-27).
Intercessione di Maria
La Lumen Gentium (cap. 7, n° 62), dopo aver affermato il ruolo unico ed insostituibile, quale Mediatrice di Cristo, sottolinea la funzione salvifica e subordinata di Maria.
Si ricordano i titoli con cui viene invocata: Ausiliatrice, Soccorritrice, Avvocata, Mediatrice.
Intercessione dei Santi
È la più potente ed efficace, a motivo della qualità e forza della loro fede e dell’intensità del loro amore. L’intercessione dei Santi si sviluppa anche dopo la morte. Hanno raggiunto la Patria, ma non riescono a staccarsi dalla terra. Tipico, a questo riguardo, l’atteggiamento di S. Teresa di Lisieux: “Se i miei desideri saranno esauditi, trascorrerò il mio cielo sulla terra sino alla fine del mondo. Sì, voglio passare il mio cielo a fare del bene sulla terra. La cosa non è impossibile. Non potrò prendere alcun riposo fino alla fine del mondo e fintantoché ci saranno anime da salvare”
Intercessione della Chiesa
Ricordiamo il fondamento teologico: la Comunione dei Santi, il Corpo Mistico di Cristo. Soprattutto nella liturgia, la Chiesa esercita questa funzione d’intercessione.
Figure di intercessori
Scorrendo le pagine dell’Antico Testamento s’intravedono diverse figure di intercessori. Ma i due esempi classici di preghiera d’intercessione hanno come protagonisti Abramo e Mosè.
ABRAMO: La scena descritta nel capitolo 18 della Genesi rimane impressa nella memoria. Dio vuole distruggere gli abitanti di Sodoma e Gomorra, per i loro numerosi peccati, ma Abramo cerca in ogni modo d’intercedere, chiedendo al Signore di perdonarli, se avesse trovato almeno 50 giusti, o solo 45, o 40, o 30, o 20, o infine solo 10!
In questa “trattativa” di Abramo il Signore acconsente ad ogni sua richiesta, sempre più grande, e lo fa in virtù della sua fede, insistenza, coraggio, fiducia. Abramo non si rivolge a Dio da pari a pari, ma con grande umiltà: riconoscendosi “polvere e cenere” (…’Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere…’). Il suo linguaggio è caratterizzato dalla modestia, ma anche dall’ instancabilità, poiché comprende che la generosità di Dio prevale sulla volontà di punire. La giustizia di Dio, disposta a dare spazio al perdono, viene assicurata dalla grande fede di Abramo, non dai suoi meriti o dalle sue virtù. Abramo non si pone in una posizione di superiorità rispetto agli abitanti di Sodoma e Gomorra; grazie al suo atteggiamento di umiltà il Signore dà ascolto alla sua preghiera e lo fa diventare “uomo d’intercessione”.
MOSÈ: Rileggendo il capitolo 32 dell’Esodo, emerge il peccato commesso dal popolo che, poichè Mosè tardava a scendere dal monte Sinai, aveva costruito e si era messo ad adorare un idolo: il vitello d’oro. Dio vuole punire gli Israeliti, colpevoli di adorare un idolo di metallo e di essersi allontanati dal vero Dio. (Colui che li aveva liberati dalla schiavitù in Egitto) e dice a Mosè:… “Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro.. “Ma Mosè trova il coraggio di “mettersi in mezzo”, tra il Signore e il popolo infedele; non accetta di separare la propria sorte da quella del popolo, vuole condividere la sorte della sua gente, rifiuta di essere un privilegiato, non accetta una salvezza individuale.
Mosè si fa solidale con il peccato commesso dal popolo (quel peccato che lui, singolarmente, non ha commesso). Si fa peccatore coi peccatori. Non recita la parte del giusto, dell’innocente, che prega per i misfatti degli altri, come avviene invece in certe nostre preghiere abusivamente chiamate “d’intercessione”. Mosè si assume la responsabilità di mettere in gioco addirittura la propria vita! E, con coraggio, si rivolge a Dio dicendo:… “Se ora Tu vuoi perdonare il loro peccato, perdona!… …Altrimenti, cancellami dal libro che hai scritto!..” È proprio attraverso questo atteggiamento deciso e pieno di coraggio, che la preghiera di Mosè porta i suoi frutti.
I primi Cristiani
Fa impressione, leggendo le lettere di San Paolo, vedere l’importanza che aveva presso i primi Cristiani la preghiera d’intercessione. Riportiamo alcuni testi che ci fanno capire quanto stesse a cuore all’Apostolo Paolo formare le prime comunità Cristiane alla preghiera per gli altri.
LETTERA ai ROMANI “… Fratelli, il desiderio del mio cuore e la mia preghiera sale a Dio per la loro salvezza (per i fratelli Ebrei)…” (Rm 10,1)
LETTERA ai CORINZI”…Dio ci ha liberati e ci libera grazie alla vostra cooperazione nella preghiera per noi…” (2 Cor 1,1011) “…Noi preghiamo anche per la vostra perfezione… (2 Cor 13,9)
LETTERA agli EFESINI”…Non cesso di rendere grazie per voi, ricordandovi nelle mie preghiere… “(Ef 1,16) “…Io piego le ginocchia davanti al Padre… perché vi conceda… di essere potentemente rafforzati dal Suo Spirito… “(Ef 3,14) “…Siate ricolmi dello Spirito, intrattenendovi a vicenda con salmi, inni, cantici spirituali, cantando ed inneggiando al Signore con tutto il cuore, rendendo continuamente grazie per ogni cosa a Dio Padre, nel nome del Signore nostro Gesù Cristo…” (Ef 5,18) “…Pregate incessantemente con ogni sorta di preghiere e di suppliche nello Spirito, vigilando a questo scopo con ogni perseveranza e pregando per tutti i Santi ed anche per me…” (Ef 6,18)
LETTERA ai FILIPPESI “…Ringrazio il mio Dio ogni volta che io mi ricordo di voi pregando sempre con gioia per voi in ogni mia preghiera…” (Fil 1, 3) “… In ogni necessità esponete a Dio le vostre richieste con preghiere, suppliche, ringraziamenti…” (Fil 4,6)
LETTERA ai COLOSSESI “…Non cessiamo di pregare per voi e di chiedere che abbiate una conoscenza piena della Sua volontà…” (Col 1,9) “…Perseverate nella preghiera e vegliate in essa, rendendo grazie. Pregate anche per noi, perché Dio ci apra la porta della predicazione e possiamo annunziare il mistero di Cristo per il quale mi trovo in catene…” (Col 4,2)
LETTERA ai TESSALONICESI “…Pregate incessantemente, in ogni cosa rendete grazie; questa è infatti la volontà di Dio in Cristo Gesù. Fratelli, pregate anche per noi…” (1 Tess 5,17) “… Preghiamo di continuo per voi perché il nostro Dio vi renda degni della Sua chiamata…” (2 Tess 1,11) “… Fratelli, pregate per noi perché la parola del Signore si diffonda…” (2 Tess 3,1)
LETTERA a TIMOTEO “…Ti raccomando prima di tutto che si facciano domande, suppliche, preghiere e ringraziamenti per tutti gli uomini e per i re, e per tutti quelli che hanno il potere…” (1 Tim 2,1)
LA PREGHIERA DI LODE
La meraviglia, ossia saper vedere
La preghiera non è conquista dell’uomo. È dono. La preghiera non nasce allorché “voglio” pregare. Ma quando mi è “dato” di pregare. È lo Spirito che ci dona e rende possibile la preghiera (Rm 8,26; 1 Cor 12,3). La preghiera non è iniziativa umana.
Può essere soltanto risposta. Dio mi precede sempre. Con le Sue parole. Con le Sue azioni. Senza le “imprese” di Dio, i Suoi prodigi, le Sue gesta, non nascerebbe la preghiera. Sia il culto come l’orazione personale sono possibili soltanto perché Dio “ha compiuto meraviglie”, è intervenuto nella storia del Suo popolo e nelle vicende di una Sua creatura.
Maria di Nazareth ha la possibilità di cantare, “magnificare il Signore”, unicamente perché Dio “ha fatto cose grandi” (Lc 1,49). Il materiale per la preghiera viene fornito dal Destinatario. Non ci fosse la Sua parola rivolta all’uomo, la Sua misericordia, l’iniziativa del Suo amore, la bellezza dell’universo uscito dalle Sue mani, la creatura rimarrebbe muta. Il dialogo della preghiera si accende quando Dio interpella l’uomo con dei fatti “che mette sotto i suoi occhi”.
Ogni capolavoro ha bisogno di apprezzamento. Nell’opera della creazione è l’Artefice Divino stesso che si compiace della propria opera: “…Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona…” (Genesi 1,31) Dio gode di quanto ha fatto, perché si tratta di una cosa molto buona, molto bella. È soddisfatto, oserei dire “sorpreso”. L’opera è perfettamente riuscita. E Dio si lascia sfuggire un “oh!” di meraviglia. Ma Dio aspetta che il riconoscimento nello stupore e nella gratitudine avvenga anche da parte dell’uomo.
La lode non è altro che l’apprezzamento della creatura per ciò che ha fatto il Creatore. “…Lodate il Signore: è bello cantare al nostro Dio, dolce è lodarLo come a Lui conviene…” (Salmo 147,1)
La lode è possibile soltanto se ci si lascia “sorprendere” da Dio.
La meraviglia è possibile esclusivamente se si intuisce, se si scopre l’azione di Qualcuno in ciò che sta davanti ai nostri occhi.
La meraviglia implica la necessità di fermarsi, ammirare, scoprire il segno dell’amore, l’impronta della tenerezza, la bellezza nascosta sotto la superficie.
“. Ti lodo perché mi hai fatto come un prodigio; sono stupende le Tue opere…” (Sal 139,14)
La lode va sottratta alla cornice solenne del Tempio e riportata anche nell’ambito modesto della quotidianità domestica, là dove il cuore fa l’esperienza dell’intervento e della presenza di Dio nelle umili vicende dell’esistenza. La lode diventa così una specie di “festa dei giorni feriali”, canto che riscatta la monotonia, sorpresa che annulla la ripetitività, poesia che sconfigge la banalità.
Bisogna che il “fare”sfoci nel “vedere”, la corsa s’interrompa per lasciar posto alla contemplazione, la fretta lasci il posto alla sosta estatica. Lodare significa celebrare Dio nella liturgia dei gesti ordinari. Complimentarsi con Lui che continua a fare “una cosa buona e bella”, in quella creazione stupefacente ed inedita che è la nostra vita di ogni giorno.
È bello lodare Dio senza preoccuparsi di stabilire i motivi.
La lode è un fatto di intuizioni e di spontaneità, che precede ogni ragionamento. Nasce da un impulso interiore ed ubbidisce ad un dinamismo di gratuità che esclude ogni calcolo, ogni considerazione utilitaristica. Non posso non godere per ciò che Dio è in se stesso, per la Sua gloria, per il Suo amore, indipendentemente dall’inventario delle “grazie” che mi concede.
La lode rappresenta una forma particolare di annuncio missionario. Più che spiegare Dio, più che presentarlo come oggetto dei miei pensieri e ragionamenti, manifesto e racconto la mia esperienza della Sua azione. Nella lode non parlo di un Dio che mi convince, ma di un Dio che mi sorprende. Non si tratta di meravigliarsi per eventi eccezionali, ma di saper cogliere lo straordinario nelle realtà più comuni. Le cose più difficili da vedere sono proprio quelle che abbiamo sempre sotto gli occhi!
I Salmi: massimo esempio di preghiera di lode:
“…Hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia, perché io possa cantare senza posa. Signore, mio Dio, ti loderò per sempre…” (Salmo 30) “….Esultate, giusti, nel Signore; ai retti si addice la lode. Lodate il Signore con al cetra, con l’arpa a dieci corde a Lui cantate. Cantate al Signore un canto nuovo, suonate la cetra con arte e acclamate…” (Salmo 33)
“…Benedirò il Signore in ogni tempo, sulla mia bocca sempre la mia lode. Io mi glorio nel Signore, ascoltino gli umili e si rallegrino. Celebrate con me il Signore, esaltiamo insieme il Suo nome….” (Salmo 34)
“…Perchè ti rattristi, anima mia, perché su di me gemi? Spera in Dio: ancora potrò lodarLo, Lui, salvezza del mio volto e mio Dio…” (Salmo 42)
“…Voglio cantare, a Te voglio inneggiare: svegliati, mio cuore, svegliati arpa, cetra, voglio svegliare l’aurora. Ti loderò tra i popoli Signore, a Te canterò inni tra le genti, perché la Tua bontà è grande fino ai cieli, la Tua fedeltà fino alle nubi…” (Salmo 56)
“…O Dio, Tu sei il mio Dio, all’aurora Ti cerco, di Te ha sete l’anima mia… poichè la Tua grazia vale più della vita, le mie labbra diranno la Tua lode…” (Salmo 63)
“…Lodate, servi del Signore, lodate il nome del Signore. Sia benedetto il nome del Signore, ora e sempre. Dal sorgere del sole al suo tramonto, sia lodato il nome del Signore…. (Salmo 113)
“…Lodate il Signore nel Suo santuario, lodatelo nel firmamento della Sua potenza. Lodatelo per i Suoi prodigi, lodatelo per la Sua immensa grandezza. Lodatelo con squilli di tromba, lodatelo con arpa e cetra; lodatelo con timpani e danze, lodatelo sulle corde e sui flauti, lodatelo con cembali sonori, lodatelo con cembali squillanti; ogni vivente dia lode al Signore. Alleluia!… (Salmo 150)
LA PREGHIERA DI BENEDIZIONE
“… Benedite, poiché siete stati chiamati per ereditare la benedizione…” (1 Pietro 3,9)
La preghiera risulta impossibile se non si ha il senso della lode, che implica la capacità di stupirsi. La benedizione (= ber’ ha) occupa un posto di spicco nell’ Antico Testamento. Essa è come “una comunicazione di vita da parte di Jahweh”. Tutto il racconto della creazione è punteggiato dalle benedizioni del Creatore. La creazione è vista come una grandiosa “opera di vita”: qualcosa di buono e di bello insieme.
La benedizione non è un atto sporadico, ma un’azione incessante di Dio. È, per così dire, il segno del favore di Dio impresso nella creatura. Oltre che un’azione che fluisce in maniera continuata, inarrestabile, la benedizione è efficace. Non rappresenta un vago augurio, ma produce ciò che esprime. Ecco perché la benedizione (come il suo opposto, la maledizione) viene sempre considerata nella Bibbia irreversibile: non si può ritrattare né annullare. Raggiunge infallibilmente lo scopo.
La benedizione è principalmente “discendente”. È Dio soltanto che ha il potere di benedire perché è Lui la sorgente della vita.
L’uomo, quando benedice, lo fa a nome di Dio, come suo rappresentante. Tipica, a questo riguardo, la stupenda benedizione contenuta nel libro dei numeri ( 6,22-27):
“…Ti benedica il Signore e ti protegga. Il Signore faccia brillare il Suo volto su di te e ti sia propizio. Il Signore rivolga su di te il Suo volto e ti conceda pace…” Ma esiste pure una benedizione “ascendente”.
L’uomo, così, può benedire Dio nella preghiera. Ed è questo un altro aspetto interessante.
La benedizione, in sostanza, vuol dire questo: tutto viene da Dio e tutto deve tornare a Lui nell’azione di grazie, nella lode; ma, soprattutto, ogni cosa va usata secondo il piano di Dio, che è un progetto di salvezza.
Fissiamo l’atteggiamento di Gesù nell’episodio della moltiplicazione dei pani: “…Prese i pani e dopo aver reso grazie, li distribuì…” (Gv. 6,11) Rendere grazie significa ammettere che ciò che si possiede è dono e va riconosciuto come tale. In fondo la benedizione, come azione di grazie, comporta una duplice restituzione: a Dio (riconosciuto come Donatore) e ai fratelli (riconosciuti come destinatari, partecipi insieme a noi del dono). Con la benedizione nasce l’uomo nuovo.
E l’uomo di benedizione, che è in armonia con tutto il creato.
La terra appartiene ai “miti”, ossia a coloro che non rivendicano nulla. La benedizione, dunque, rappresenta una linea di confine che divide l’uomo economico dall’uomo liturgico: il primo tiene per sé, l’altro si dona. L’uomo economico dispone delle ricchezze, quello liturgico, ossia l’uomo eucaristico, è padrone di se stesso. Allorchè un uomo benedice non è mai solo: il cosmo intero si unisce alla sua minuscola parola di benedizione (Cantico di Daniele 3,51 – Salmo 148).
La benedizione ci impegna ad usare la lingua in un unico senso. L’Apostolo Giacomo, con frasi roventi, denuncia un abuso purtroppo molto frequente: “…Con la lingua benediciamo il Signore e Padre, e con essa malediciamo gli uomini fatti a somiglianza di Dio. È dalla stessa bocca che esce benedizione e maledizione. Non dev’essere così, fratelli miei. Forse la sorgente può far sgorgare dallo stesso getto acqua dolce ed amara? Può forse, miei fratelli, un fico produrre olive o una vite produrre fichi? Neppure una sorgente salata può produrre acqua dolce… ” (Gc. 3,9-12)
La lingua viene dunque “consacrata” attraverso la benedizione. E noi purtroppo ci permettiamo di “sconsacrarla” con la maldicenza, il pettegolezzo, al menzogna, le mormorazioni.
Adoperiamo la bocca per due operazioni di segno opposto e pensiamo sia tutto regolare. Non ci rendiamo conto che le due cose si escludono a vicenda. Che non si può, al tempo stesso, “dire bene” di Dio e “dire male” del prossimo. La lingua non può esprimere benedizione, che è vita, e insieme gettare veleno che minaccia e addirittura spegne la vita.
Il Dio che incontro quando “salgo fino al Lui” nella preghiera, è il Dio che mi obbliga a “ridiscendere”, a cercare il prossimo, a trasmettere un messaggio di benedizione, ossia di vita.
L’esempio di Maria
È provvidenziale che sia rimasta una preghiera della Madonna: il Magnificat. Così la madre del Signore ci fa da maestra nella preghiera di lode e di ringraziamento.
È bello avere Maria come guida, perché fu lei a insegnare a Gesù a pregare; fu lei che gli insegnò le prime “berakòth”, le preghiere di ringraziamento ebraiche. Fu lei che fece scandire a Gesù le prime formule di benedizione, come facevano ogni mamma ed ogni papà in Israele. Nazareth dovette diventare presto la prima scuola del ringraziamento. Come in ogni famiglia Ebraica si ringraziava dal “levar del sole fino al suo tramonto”. La preghiera di ringraziamento è la più bella scuola di vita, perché ci guarisce dalla nostra superficialità, ci fa crescere nel rapporto con Dio, nella gratitudine e nell’amore, ci educa profondamente alla fede.
LA PREGHIERA DI RINGRAZIAMENTO
Cristiano non è colui che chiede delle grazie, o riceve delle grazie.
È colui che rende grazie. Non per nulla l’Eucaristia, che rappresenta l’atto più sublime del culto cristiano, significa, letteralmente, “azione di grazie”.
Partiamo da una constatazione: se facciamo un inventario dei contenuti della nostra preghiera, ci accorgiamo che la domanda occupa un posto preponderante rispetto al ringraziamento.
Non soltanto troppo spesso ci scordiamo di ringraziare Dio dopo aver ottenuto quanto chiedevamo, no, la dimenticanza è ancor più radicale. Infatti riusciamo ad essere puntigliosi quando si tratta di constatare ciò che ci manca, per stilare la lista delle pressanti richieste. Ma ci dimostriamo sbadati quando dovremmo accorgerci di ciò che riceviamo quotidianamente. Avvertiamo la mancanza.
Non sappiamo prendere atto del dono, specialmente di quello che ci viene recapitato silenziosamente, con regolarità quotidiana. Il grande peccato, allora, diventa la distrazione. Occorre precisare: non sono tanto le “distrazioni nella preghiera”. Ma la distrazione è precedente alla preghiera, non ci porta alla preghiera, non fa nascere in noi l’esigenza della preghiera per “dire grazie”.
San Paolo, nella lettera ai Colossesi, dopo aver abbozzato un programma molto semplice, ma estremamente impegnativo, di vita comunitaria, in cui devono trovare posto la misericordia, la bontà, l’umiltà, la mansuetudine, la pazienza, la sopportazione, il perdono, la carità, conclude con un invito perentorio: “…E siate riconoscenti!..” (3,15) Subito dopo aggiunge: “…Cantate a Dio di cuore la vostra gratitudine con salmi, inni e cantici ispirati…’: E conclude: “…Tutto quello che fate in parole e opere, tutto si compia nel nome del Signore Gesù, rendendo per mezzo di Lui grazie a Dio Padre…”
Il punto di partenza è dunque l’esperienza dell’amore gratuito di Dio (“amati e scelti’), che conferisce alla preghiera una tonalità di prorompente riconoscenza.
Il popolo di Dio che ha sperimentato la grazia, diventa capace di gratitudine. E questa riconoscenza non permea soltanto la preghiera, ma l’intera vita del cristiano in tutte le sue manifestazioni. La gratitudine è stata definita come “la memoria del cuore”, ma non si tratta soltanto di ricordare. Occorre rendersi conto, accorgersi di una realtà presente. Riconoscenza deriva da “conoscere”.
Qui, però, non è questione semplicemente di “apprendere con l’intelletto”, ma di far entrare in azione il cuore.
Per cui una certa realtà viene vista, accolta, interpretata, capita, ricevuta dal cuore. La grande nemica della riconoscenza è certamente l’abitudine; quando si da tutto per scontato, o addirittura dovuto, si diventa incapaci di dire grazie. Se invece riconosco che “tutto è grazia”, allora tutto diventa occasione per “rendere grazie”.
“…Che cosa renderò al Signore per quanto mi ha dato?…” (Salmo 116,12)
Io devo qualcosa a Qualcuno. lo devo qualcosa a tutti.
Se uno non si sente debitore, nella vita accamperà sempre e soltanto dei diritti, delle pretese, non sarà mai amico del dovere.
Non sentirà il “dovere di contraccambiare”. Il dovere è l’altra faccia della gratitudine. Chi non ama il dovere, non possiede il senso della grandezza e della preziosità della vita. Non un dovere cupo, opprimente. Ma una dovere gioioso, che si esprime nel canto, oltre che nel lavoro.
La preghiera come racconto confidenziale
“Signore, ho qualcosa da raccontarti. Ma è un segreto tra me e Te”.
La preghiera confidenziale può iniziare più o meno così. E può snodarsi sotto forma di racconto. Piano, semplice, spontaneo, in una tonalità dimessa, senza amplificazioni.
Si tratta di riferire un episodio che ti ha visto protagonista nascosto; un’azione senza risalto, un gesto che è sfuggito all’attenzione generale. Nessuno si è accorto di nulla.
E allora ti apri a Lui, non per lamentarti, ma per offrirGli un “dono intatto”, esclusivo, sottratto alla curiosità altrui. Nessuna gratificazione, salvo quella di aver compiuto “una bella azione” per Colui che ami. L’equivalente del profumo costosissimo, raro, che la donna ha “sprecato” per Gesù, spezzando anche il flacone fabbricato con materiale prezioso. Stavolta il valore dell’azione dipende dal prezzo che hai pagato in termini di segretezza.
Convinciti che è molto importante questo tipo di preghiera confidenziale nella nostra società all’insegna dell’apparire, dell’ esibizione, della vanità. Ognuno, a dispetto delle professioni di umiltà, esige che dalla platea vengano gli applausi. Tutto deve diventare notizia. Non importa il prodotto. Bisogna allestire una grandiosa vetrina. Eppure l’amore ha bisogno soprattutto di umiltà, di pudore. L’amore non è più amore senza un contesto di segretezza, senza la dimensione di riservatezza. Ritrova dunque nella preghiera la gioia del nascondimento, della non-appariscenza.
LA PREGHIERA DI PENTIMENTO
Beati quelli che sanno di essere peccatori. C’è la preghiera penitenziale. Più completamente: la preghiera di chi sa di essere peccatore. Cioè dell’uomo che si presenta davanti a Dio riconoscendo le proprie colpe, miserie, inadempienze. E tutto ciò, non in rapporto ad un codice legale, ma al codice assai più esigente dell’amore. Se la preghiera è un dialogo d’amore, la preghiera penitenziale è propria di chi riconosce di aver commesso il peccato per eccellenza: il nonamore. Di colui che ammette di aver tradito l’amore, essere venuto meno ad un “patto reciproco”. La preghiera penitenziale e i salmi ci offrono esempi illuminanti in questo senso.
La preghiera penitenziale non riguarda i rapporti tra un suddito ed un Sovrano, ma un’ Alleanza, ossia una relazione di amicizia, un legame d’amore. Smarrire il senso dell’amore significa perdere anche il senso del peccato.
E recuperare il senso del peccato equivale a recuperare l’immagine di un Dio che è Amore. Insomma, soltanto se hai capito l’amore e le sue esigenze, puoi scoprire il tuo peccato.
In riferimento all’amore, la preghiera di pentimento mi fa prendere coscienza che sono un peccatore amato da Dio.
E che sono pentito nella misura in cui sono disposto ad amare (“…Mi vuoi bene?..” Gv.21,16).
Dio non è tanto interessato alle sciocchezze, di varie dimensioni, che posso aver commesso. Ciò che gli sta a cuore è accertare se sono consapevole della serietà dell’amore.
Per cui la preghiera penitenziale implica una triplice confessione:
– confesso che sono peccatore
– confesso che Dio mi ama e mi perdona
– confesso che sono “chiamato” ad amare, che la mia vocazione è l’amore
Un esempio stupendo di preghiera di pentimento collettivo è quella di Azaria in mezzo al fuoco: “…Non ci abbandonare fino in fondo per amore del Tuo nome, non rompere la Tua alleanza, non ritirare da noi la Tua misericordia…” (Daniele 3,26-45).
Si invita Dio a prendere in considerazione, per regalarci il perdono, non i nostri meriti precedenti, ma unicamente le ricchezze inesauribili della Sua misericordia, “…per amore del Suo nome…” Dio non bada al nostro buon nome, ai nostri titoli o al posto che occupiamo. Tiene solo conto del Suo amore.
Quando ci presentiamo di fronte a Lui realmente pentiti, crollano ad una ad una le nostre sicurezze, perdiamo tutto, ma ci rimane la cosa più preziosa: “…essere accolti con cuore contrito e con lo spirito umiliato…” Abbiamo salvato il cuore; tutto può ricominciare.
Ci siamo illusi, come il figliol prodigo, di riempirlo di ghiande contese ai porci (Luca 15,16). Finalmente ci siamo accorti che possiamo riempirlo solo di Te. Abbiamo inseguito i miraggi. Ora, dopo aver inghiottito delusioni a ripetizione, vogliamo imboccare la strada giusta per non morire di sete: “…Ora Ti seguiamo con tutto il cuore, … cerchiamo il Tuo volto…” Quando si è perso tutto, rimane il cuore. E ha inizio la conversione.
Un esempio semplicissimo di preghiera penitenziale è quello offerto dal pubblicano (Luca 18,9-14), che fa il gesto semplicissimo di battersi il petto (cosa non sempre facile quando il bersaglio è il nostro petto e non quello degli altri) e usa parole semplici (“…O Dio, abbi pietà di me peccatore…”). Il fariseo ha portato davanti a Dio l’elenco delle proprie benemerenze, delle proprie prestazioni virtuose, e fa un discorso solenne (una solennità che, come spesso accade, sconfina nel ridicolo). Il pubblicano non ha neppure bisogno di presentare la lista dei propri peccati. Si limita a riconoscersi peccatore.
Non osa levare gli occhi al cielo, ma invita Dio a chinarsi su di lui (“..Abbi pietà di me…” si può tradurre con “Chinati su di me”). La preghiera del fariseo contiene un’espressione che ha dell’incredibile: “…O Dio, ti ringrazio che non sono come gli altri uomini…”: Lui, il fariseo, non sarà mai capace di una preghiera penitenziale (al massimo, nella preghiera, confessa le colpe degli altri, oggetto del suo disprezzo: ladri, ingiusti, adulteri).
La preghiera di pentimento è possibile quando uno ammette umilmente di essere come gli altri, ossia peccatore bisognoso di perdono e disposto a perdonare. Non si arriva a scoprire la bellezza della comunione dei Santi, se non si passa attraverso la comunione coi peccatori.
Il fariseo reca i propri meriti “esclusivi” davanti a Dio. Il pubblicano reca i peccati “comuni” (i propri, ma anche quelli del fariseo, ma senza aver bisogno di accusarlo). Il “mio” peccato è il peccato di tutti (o che ferisce tutti). E il peccato degli altri mi chiama in causa a livello di corresponsabilità. Quando dico: “…O Dio, abbi pietà di me peccatore… “; intendo implicitamente “…Perdona i nostri peccati… “:
LA PREGHIERA DI DOMANDA
Chiedere oltre i nostri desideri
Per molti cristiani la preghiera di domanda è l’unica forma di preghiera conosciuta. Pregare, secondo una certa mentalità, vuol dire semplicemente chiedere. Tutti, in questo settore specifico, si ritengono degli esperti. E guai a contestare tale specializzazione!
La falsificazione più evidente è quella dell’ utilitarismo e quindi della strumentazione, quasi magica, della religione, che porta a considerare Dio al mio servizio, a mia disposizione.
Un Dio al quale s’impartiscono addirittura degli ordini.
L’altra distorsione molto frequente è quella che colloca la preghiera di domanda nei momenti di emergenza della vita, nei casi drammatici, nelle situazioni tragiche, senza via d’uscita.
Insomma, qualcosa come un estremo segnale d’allarme, cui ci si aggrappa disperatamente quando scocca l’ora del pericolo.
Si dimentica che il legame con Dio s’inserisce nella quotidianità, nella normalità dell’esistenza, nei giorni belli come in quelli grigi, quando c’è il sereno e allorché sul nostro orizzonte si addensa la tempesta. Invece, troppa gente si accorge di Lui solo nelle circostanze in cui proprio non può farne a meno.
Ma la sfasatura più tipica riguarda l’esaudimento.
Per cui certi individui, dopo aver constatato che le loro richieste non sono state soddisfatte secondo i loro gusti, nei tempi e nei modi desiderati (o imposti), finiscono per abbandonare la pratica della preghiera. Vediamo, anche per dissipare questi ed altri equivoci, di fare un po’ di chiarezza.
La preghiera di domanda deve possedere tre connotati essenziali:
1. è una preghiera fiduciosa
2. è una preghiera “ispirata”
3. è una preghiera certamente esaudita.
1. Preghiera fiduciosa
La fede, che sta alla base di ogni esperienza di preghiera, assume qui la dimensione peculiare della fiducia.
Fiducia che è fondata su un Padre che ama le sue creature, si manifesta sensibile alle loro necessità, è sollecito per il loro bene e la loro gioia, non si mostra estraneo a nessuno dei loro problemi, condivide le loro difficoltà.
“…Ebbene, Io vi dico: chiedete e vi sarà dato, cercate e troverete, bussate e vi sarà aperto. Perché chi chiede ottiene, chi cerca trova, a chi bussa sarà aperto…” (Luca 11, 7).
Nel Vangelo, Gesù invita pressantemente a chiedere, e a chiedere con insistenza, senza scoraggiarsi. “…Disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi…” (Luca 18,1).
Non dobbiamo esitare a “importunare” Dio con le nostre richieste (Lc 11,5-8; Mt 15,21-28; Mc 8,24-30).
Ma Gesù avverte anche: “…Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno, prima ancora che gliele chiediate…” (Matteo 6,8).
Un’antica traduzione della Bibbia dà a questa frase tale significato: “…prima ancora che apriate bocca…”:
“. ..Prima che mi invochino, Io risponderò; mentre ancora stanno parlando, Io già li avrò ascoltati…” (Isaia 65,24).
Stando così le cose, la preghiera di supplica diventa superflua? No. La preghiera resta necessaria.
Ciò che appare inutile è la presentazione di una lista interminabile e minuziosa delle nostre necessità. Il Padre sa in anticipo…
Dio non ha bisogno di essere informato puntigliosamente su ciò che ci occorre. Semmai, gradisce essere informato sulla nostra fede-fiducia. Avere notizie riguardo al nostro amore.
Più che metterlo al corrente dì tutti i nostri guai più minuscoli ed esporgli tutti i nostri desideri, ci chiede di manifestargli nella preghiera la nostra confidenza filiale, il nostro sereno abbandono.
Dobbiamo comunicargli la nostra esigenza più profonda: che Lui si dimostri Padre.
Avere fede, ancora una volta, significa essere sicuri che Lui “sa”….
Esistono situazioni-limite, in cui sperimentiamo la nostra impotenza radicale, ci rendiamo conto di non poter assolutamente nulla.
E allora è più che legittimo che noi, Suoi collaboratori, chiediamo a Dio di condividere le nostre angosce e le nostre paure.
San Paolo dà questo consiglio: “…Avete dei pesi insopportabili, che vi procurano un’ansia tormentosa? Ebbene, condivideteli con Dio, fategliene parte!…” (Filippesi 4,6).
Non dobbiamo, però, ricorrere al Padre soltanto nei casi d’emergenza. Occorre riconoscersi dipendenti da Lui anche quando riusciamo a cavarcela anche senza interventi miracolosi dall’alto. Infatti, pure in questi casi, dipendiamo dai suoi doni. Il Padre interviene pure quando ci da il coraggio e la volontà di trovare da soli la soluzione del problema. Dio è vicino. È Colui sul quale si può contare. Ma non è a nostra disposizione. Dobbiamo evitare di invertire i ruoli. Siamo noi che, nella preghiera, ci mettiamo a disposizione di Dio. Quando preghiamo noi ci apriamo, ci rendiamo disponibili alla Sua azione. Il tono e i contenuti di certe preghiere, anche di quelle così dette “spontanee”, rivelano la pretesa di “istruire” Dio, spiegargli nei dettagli cosa e come deve fare, suggerirgli la soluzione sia dei problemi personali che di quelli riguardanti la Chiesa o il mondo intero.
2. Preghiera “ispirata”
“…Lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza, perché nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare, ma lo Spirito stesso intercede con insistenza per noi, con gemiti inesprimibili; e Colui che scruta i cuori sa quali sono i desideri dello Spirito, poiché Egli intercede per i credenti secondo i disegni di Dio…” (Romani 8,26.27).
Qui ci vengono mosse delle precise imputazioni nel campo della preghiera. E proprio in quel settore specifico che è la preghiera di domanda, in cui ci consideriamo un po’ tutti specialisti.
Ma cosa viene a dirci mai Paolo?
Quando preghiamo, lo facciamo quasi sempre perché abbiamo delle richieste ben definite da sottoporre all’attenzione del Signore. La preghiera di supplica, nel nostro panorama religioso, purtroppo, toglie spazio ad altri tipi di preghiera, che pure andrebbero praticati: lode, benedizione, azione di grazie, adorazione, offerta, contemplazione.
Il fatto è che abbiamo tante, troppe cose da chiedere. Le necessità sono innumerevoli. Oltre a quelle ordinarie, ci sono gli imprevisti, gli incidenti spiacevoli che non si possono preventivamente mettere in conto, le disgrazie, le emergenze. Dalla salute alla scuola, passando per i problemi economici e familiari, l’elenco delle “grazie” per cui bussare alla porta del Signore aumenta ogni giorno di più. E non sempre Lui (come almeno noi pensiamo…) è pronto nell’esaudire come noi vorremmo, per cui restano irrisolte sempre troppe richieste che ci obbligano, nostro malgrado, a sollecitare.
Paolo ci dice che “…nemmeno sappiamo che cosa sia conveniente domandare…”.
Oggi siamo abituati a recitare preghiere martellanti, definitive, non di rado indiscrete, eccessive quanto al tono. Tutto è specificato in maniera particolareggiata. Dio è “obbligato” ad esaudirci, attenendosi scrupolosamente alle nostre istruzioni. In fondo, gli facilitiamo il compito!!! Il guaio è che “…non sappiamo nemmeno cosa sia conveniente domandare…”.
Senza lo Spirito che prega dentro di noi “…con gemiti inesprimibili…”; le nostre suppliche non arriverebbero mai al Padre. Anzi, la preghiera sarebbe impossibile. La nostra preghiera troppo spesso fa dei calcoli eccessivamente meschini. È commisurata alle nostre possibilità, più che alle disponibilità del Dio “padrone dell’impossibile”.
Soprattutto: la nostra preghiera non sempre riesce a dar conto delle nostre vere necessità.
Non ci accorgiamo delle cose essenziali che ci mancano.
Di fronte ad un ostacolo, una difficoltà, abitualmente esigiamo che Dio provveda, appianando il terreno, togliendo di mezzo quelle realtà spiacevoli. Non ci rendiamo conto che, invece, è conveniente domandare che il Signore ci dia il coraggio, l’intelligenza, la fantasia per affrontare quella situazione.
Compito dello Spirito non è quello di “appoggiare” le nostre richieste, assicurarci un esito favorevole ed in tempi brevi.
No. Lo Spirito deve ispirare la nostra preghiera, le nostre domande.
Siamo noi che dobbiamo entrare nella prospettiva dello Spirito, non viceversa. Dovremmo almeno avere il sospetto che se Dio ci esaudisse secondo i nostri gusti e non secondo i desideri dello Spirito, secondo i nostri progetti e non secondo i Suoi disegni, avremmo da perdere più che da guadagnare. Insomma, quando si tratta di preghiera, è necessario tirarci in disparte e dar voce allo Spirito, resistendo alla tentazione di soffocarla con le nostre richieste. Sì, il Padre conosce le nostre necessità!
3. Una preghiera sicuramente esaudita…
Cristo ci ha fornito precise garanzie circa l’esaudimento delle nostre preghiere. Ci ha assicurato che tutto ciò che chiediamo in Suo nome, il Padre ce lo concederà: “…Se chiederete qualche cosa al Padre nel mio nome, Egli ve la darà… Finora non avete chiesto nulla nel mio nome… Chiedete ed otterrete, perché la vostra gioia sia piena…” (Vangelo di Giovanni)
Come mai, allora, parecchie nostre richieste non vengono esaudite? Noi spesso ci lamentiamo perché Dio non ci ascolta, non presta attenzione alle nostre suppliche, neppure a quelle presentate con carattere di urgenza. Sembra deludere la nostra speranza, rimandandoci a mani vuote….
Rileggendo attentamente l’episodio evangelico sulla preghiera di Gesù nell’orto degli ulivi, notiamo che inizialmente Egli supplica Dio di liberarlo dal dolore e dalla morte, dicendo: “…Passi da me questo calice…” ma subito dopo trasforma la sua domanda, precisando: “…Però non come voglio io, ma come vuoi Tu…”.
In tal modo, la preghiera trasforma il desiderio, che si modella sulla volontà del Padre, quale che sia.
Infatti colui che prega aspira innanzitutto all’unione delle due volontà nell’amore.
Gesù non rinuncia a domandare la vittoria sulla morte; si rimette però totalmente a Dio per quanto riguarda la via da seguire.
È assurdo, perciò, impartire disposizioni a Dio nella preghiera. Dio ci esaudisce sicuramente, ma a modo Suo.
Ossia secondo la Sua generosità infinita di Padre, non “a modo nostro”, che è sempre riduttivo, rispetto ai progetti divini.
Va a nostro vantaggio che il Padre non ci prenda letteralmente in parola. La preghiera esaudita è la preghiera che ci trasforma, ci fa entrare nel progetto di Dio, ci inserisce nella Sua azione.
È preferibile un Dio che mi sorprende ad un Dio che mi accontenta!
“… Qualunque cosa chiederete nel Mio nome, Io la farò, così che il Padre sia glorificato nel Figlio. Se mi chiederete qualche cosa nel Mio nome, Io la farò…” (Gv 14, 13-14).
L’espressione “nel Mio nome” si potrebbe intendere “In unione con Me”, “uniti a Me”‘ “in comunione con Me”.
Il cielo rimane aperto e non s’interrompe più la comunicazione tra Dio e gli uomini e il luogo di tale comunicazione è Gesù.
Chiedere “nel Suo nome” significa anche “nel Suo Spirito”.
Si tratta di permettere che Lui presti il Suo Spirito alle nostre domande, le traduca secondo le Sue intenzioni.
Occorre rimetterci a Lui, lasciare che Lui interpreti le nostre domande meglio di quanto comprendiamo noi.
Perciò, chiedere nel nome del Figlio significa essere esauditi nel Suo nome e a Suo modo. La risposta di Dio è certa, infallibile.
Ed è più grande di quello che abbiamo domandato, anche se apparentemente non abbiamo ottenuto ciò che abbiamo richiesto.
Quando preghi… non fidarti delle tue impazienze. Non fidarti nemmeno dei tuoi desideri. Dio non brama altro che esaudirti nella preghiera. Dio desidera esaudirti. Ma non può sempre desiderare ciò che desideri tu. Ti regala lo Spirito, non soltanto per rimediare alla debolezza della tua preghiera, ma per venire in soccorso della inconsistenza dei tuoi desideri.
Tuttavia, nel profondo dei nostri cuori c’è lo Spirito. E allora Dio sa quali sono i desideri dello Spirito.
Dio non si fida della nostra mancanza di fiducia. Noi chiediamo troppo poco e male. Dio sogna “cose grandi”, “cose stupende”, perfino “cose impossibili” per i Suoi figli.
Dio è deluso non tanto di ciò che facciamo per Lui, ma a motivo di ciò che non Gli permettiamo di fare per noi.
LE TRE TAPPE DELLA PREGHIERA
La preghiera ha tre tappe.
La prima è: incontrare Dio.
La seconda è: ascoltare Dio.
La terza è: rispondere a Dio.
Se voi percorrete queste tre tappe, voi siete arrivati alla preghiera profonda. Può succedere che voi non siate arrivati nemmeno alla prima tappa, quella di incontrare Dio.
1. Incontrare Dio da figlio
È necessaria una rinnovata scoperta del grande mezzo della preghiera. Nel documento “Novo Millennio Ineunte” Papa Giovanni Paolo II ha lanciato dei forti allarmi, dicendo che “è necessario imparare a pregare”. Perché lo ha detto? Poiché si prega poco, si prega male, tanti non pregano. Io sono rimasto scioccato, alcuni giorni fa, da un santo parroco, che mi ha detto: “Io vedo che la mia gente dice preghiere, ma non sa parlare con il Signore; dice preghiere, ma non sa comunicare con il Signore…”.
Stamattina dicevo il Rosario. Al terzo mistero mi sono svegliato e mi sono detto: “Sei già al terzo mistero, ma hai parlato con la Madonna? Hai già detto 25 Ave Maria e non le hai ancora detto che Le vuoi bene, non hai ancora parlato con Lei!”
Noi diciamo preghiere, ma non sappiamo parlare con il Signore. Questo è tragico!
Nel Novo Millennio Ineunte il Papa dice:
“… Le nostre comunità cristiane devono diventare autentiche scuole di preghiera. Occorre che l’educazione alla preghiera diventi, in qualche modo, un punto qualificante di ogni programmazione Pastorale…”. Qual è il primo passo per imparare a pregare?
Il primo passo è questo: voler veramente pregare, capire con chiarezza qual è l’essenza della preghiera, lottare per arrivare lì e prendere abitudini nuove, costanti e profonde di preghiera autentica.
Perciò la primissima cosa da fare è disimparare le cose sbagliate.
Una delle abitudini che abbiamo fin dall’infanzia è l’abitudine alla preghiera parolaia, l’abitudine alla preghiera vocale distratta.
Essere distratti, di tanto in tanto, è normale. Ma essere abitualmente distratti non è normale. Pensate a certi Rosari, a certo salmeggiare distratto!
S. Agostino ha scritto: “Dio preferisce l’abbaiare dei cani al salmodiare distratto!”
Noi non abbiamo sufficiente allenamento alla concentrazione.
Don Divo Barsotti, grande mistico e maestro di preghiera dei nostri giorni, ha scritto: “Noi siamo abituati ad essere invasi e dominati da tutti i pensieri, mentre non siamo abituati a dominarli”. Questo è il grande male della vita spirituale: non siamo abituati al silenzio.
È il silenzio che crea il clima di profondità della preghiera. È il silenzio che aiuta a prendere contatto con noi stessi. È il silenzio che apre all’ascolto. Il silenzio non è tacere. Il silenzio è per ascoltare.
Dobbiamo amare il silenzio per amore della Parola.
Il silenzio crea ordine, chiarezza, trasparenza.
Io dico ai giovani: “Se non arrivi alla preghiera di silenzio, non arriverai mai alla preghiera vera, perché non scenderai nella tua coscienza. Tu devi arrivare a stimare il silenzio, ad amare il silenzio, ad allenarti al silenzio…” Noi non ci alleniamo alla concentrazione. Se non ci si allena alla concentrazione, avremo una preghiera che non scende nel profondo del cuore. Io devo trovare il contatto interiore con Dio e ristabilire continuamente questo contatto. La preghiera minaccia di scivolare nel puro monologo. Deve invece diventare colloquio, deve diventare dialogo.
Dal raccoglimento dipende tutto. Nessuna fatica è sprecata a questo scopo e anche se tutto il tempo della preghiera trascorre soltanto nel cercare il raccoglimento, sarebbe già ricca preghiera, perché raccogliersi significa essere svegli. E l’uomo, nella preghiera, deve essere sveglio, deve essere presente. Urge piantare nella testa e nel cuore le idee fondamentali della preghiera.
La preghiera non è una delle tante occupazioni della giornata.
E l’anima di tutta la giornata, perché è il rapporto con Dio l’anima di tutta la giornata e di tutte le azioni.
La preghiera non è un dovere, ma un bisogno, una necessità, un dono, una gioia, un riposo. Se non arrivo qui, non sono arrivato alla preghiera, non l’ho capita.
Quando Gesù ha insegnato la preghiera, ha detto una cosa di straordinaria importanza: “…Quando pregate dite: Padre…'” Gesù ha spiegato che pregare è entrare in rapporto affettuoso con Dio, è diventare figli. Se non si entra in rapporto con Dio, non si prega.
Il primo passo della preghiera è incontrare Dio, è entrare in rapporto affettuoso e filiale. Questo è un punto su cui bisogna lottare con tutte le forze, perché è qui che si gioca la preghiera.
Pregare è incontrare Dio con il cuore caldo, è incontrare Dio da figli. “…Quando pregate dite: Padre…”
2. Ascoltare Dio
Nella preghiera non è importante quello che noi abbiamo da dire a Dio. È importante quello che Dio ha da dire a noi.
Ascoltare (dall’Ebraico “shemà”) è il verbo chiave della Bibbia: nell’Antico Testamento questa parola è ripetuta 1100 volte e nel Nuovo Testamento 445 volte! Se la preghiera non ci porta all’ascolto, noi siamo alla periferia della preghiera. L’ascolto è la ricerca umile, fiduciosa della luce di Dio. L’ascolto è duro, perché ci scomoda sempre. Però l’ascolto ci matura. L’ascolto è proprio il segno dell’amore. Quando due persone si ascoltano, si amano. Quando due persone si amano, si ascoltano. Quando noi amiamo Dio, lo ascoltiamo. Quando lo ascoltiamo, lo amiamo.
Le vie dell’ascolto sono:
– la Parola di Dio
– la nostra coscienza
– gli avvenimenti
La prima via dell’ascolto è la Parola di Dio
La Parola deve diventare la linfa della preghiera. Il primo libro di preghiera è la Bibbia.
“… Può essere che un cristiano non abbia tempo di leggere un libro, non abbia tempo di leggere un giornale, non abbia tempo di vedere la televisione, ma non è concepibile che un cristiano non trovi il tempo per leggere la Parola di Dio…” (Card. Martini).
La seconda via dell’ascolto è la nostra coscienza
La coscienza parla se io sono capace di stimolarla. Nella preghiera c’è sempre una parte di noi che resiste. Una domanda importante è questa: “…Signore, sei contento della mia carità? Sei contento di come mi comporto in casa?
Sei contento di come mi comporto con le persone pesanti?
Signore, cosa non approvi di me? Signore, quali sono i Tuoi desideri su di me?
Parla, signore, il Tuo servo ti ascolta”.
Mi sono accorto che Dio fa il muto se io faccio il sordo.
La terza via dell’ascolto sono gli avvenimenti
Dio stesso parla attraverso gli avvenimenti, lieti o tristi, piacevoli o non piacevoli, permessi da noi o causati da noi.
Se davanti ad una difficoltà io so interrogarmi “Signore, cosa vuoi dirmi?” io scopro un messaggio. Io devo provocare questo messaggio per la mia vita, per la mia crescita. L’ascolto esige un clima. Il silenzio è il clima dell’ascolto. Chi non predilige il silenzio, chi non si allena al silenzio, non arriverà all’ascolto.
3. Rispondere a Dio
Dall’ascolto nasce la terza tappa della preghiera, che è rispondere, cioè agire ed obbedire.
Questa tappa non si può eliminare, perché è costitutiva della preghiera. In noi ciò che conta sono le decisioni.
La preghiera deve sempre sfociare in una decisione precisa.
Ai giovani principianti io do sempre un consiglio: comincia sempre la preghiera dalla cosa che scotta. Se il problema che ti brucia è l’egoismo, è lì la tua preghiera; se è la pigrizia, è lì la tua preghiera; se è l’ignoranza religiosa, la tua preghiera è lì. E poi termina sempre la preghiera con una decisione scritta, così hai in mano il documento che hai amato e che hai risposto al Signore. Se la decisione è la prova che in noi è scattato l’amore, è scattata l’adesione alla Sua volontà, è scattato un “sì” a Dio.
Per spiegare le tre tappe della preghiera, trovo molto efficace questo paragone: la preghiera è una grande autostrada a tre corsie, che va a Dio. La prima corsia è quella d’ingresso, che è indispensabile per entrare in autostrada e che serve per i mezzi di trasporto lenti.
Bisogna partire da lì, dalla preghiera vocale attenta.
Poi c’è la corsia di mezzo, che è quella in cui avviene il grande traffico stradale. È la corsia della velocità, cioè la preghiera che si fa ascolto di Dio. Poi c’è la corsia di sorpasso, la corsia dell’alta velocità, cioè della preghiera del cuore, della preghiera di silenzio.
Questi sono i gradi della preghiera.
Si parte dalla preghiera vocale attenta: questo è il primo passo della preghiera.
Poi bisogna arrivare all’ascolto di Dio.
Purtroppo la gente, in gran parte, si ferma alla prima corsia e allora vive una vita cristiana fiacca, che non arriva alle decisioni.
E poi bisogna imparare l’arte della preghiera del cuore.
La preghiera di ascolto deve portare alla preghiera interiore, alla preghiera di silenzio. E qui che si forma il cristiano. Ma occorre una macchina buona, perché la terza corsia è quella dell’alta velocità.
La preghiera del cuore tende alla preghiera della santità, cioè a fare della nostra vita un capolavoro di Dio nell’adesione perfetta e costante alla Sua volontà. Quando mi chiedono qual’é la più bella preghiera del cuore, io rispondo che è la preghiera sanguinante del Getzemani: “…Padre, non la mia, ma la Tua volontà sia fatta…” .
Adesso mi sono accorto che si può fare un passo avanti.
Invece di dire: “…Padre, non la mia, ma la Tua volontà sia fatta…” (che fa un po’ paura), io faccio una preghiera che non mi fa paura. Dico: “Padre, in questo momento voglio essere la Tua gioia! Voglio essere la Tua gioia nei momenti più banali di questo giorno!”
Questa preghiera è un pochino più facile di quella sanguinante del Getzemani, ma è la stessa. Quando la nostra vita combacia perfettamente e costantemente con la volontà di Dio, siamo arrivati alla preghiera del cuore, alla preghiera della santità.
In sintesi, che cos’è la preghiera? La preghiera è amare.
Gesù, dandoci il Padre Nostro, ci presenta il modello della preghiera e ci spiega che pregare significa amare.
Il Padre Nostro è fatto di sette atti d’amore.
C’è solo un’invocazione che non sembra essere un atto d’amore: “…Dacci oggi il nostro pane quotidiano… “; ma è un’invocazione fatta al plurale. Noi invochiamo il pane per tutti gli affamati, quindi è un atto d’amore. Cos’è amare? Amare è cambiare. E cambiare cos’è?
Cambiare è crescere, correggere, modificare, guarire. L’amore sta nei fatti.
L’EUCARISTIA E LA VERGINE MARIA
(Dall’esortazione Apostolica “Sacramentum Caritatis” del Santo Padre Benedetto XI°)
Dalla relazione tra l’Eucaristia e i singoli Sacramenti, e dal significato escatologico dei santi Misteri, emerge nel suo insieme il profilo dell’esistenza cristiana, chiamata ad essere in ogni istante culto spirituale, offerta di se stessa gradita a Dio.
E se è vero che noi tutti siamo ancora in cammino verso il pieno compimento della nostra speranza, questo non toglie che si possa già ora con gratitudine riconoscere che quanto Dio ci ha donato trova perfetta realizzazione nella Vergine Maria, Madre di Dio e Madre nostra: la sua Assunzione al cielo in corpo ed anima è per noi segno di sicura speranza, in quanto indica a noi, pellegrini nel tempo, quella meta escatologica che il sacramento dell’Eucaristia ci fa fin d’ora pregustare. In Maria Santissima vediamo perfettamente attuata anche la modalità sacramentale con cui Dio raggiunge e coinvolge nella sua iniziativa salvifica la creatura umana.
Dall’Annunciazione alla Pentecoste, Maria di Nazareth appare come al persona la cui libertà è totalmente disponibile alla volontà di Dio.
La sua Immacolata Concezione si rivela propriamente nella docilità incondizionata alla Parola divina.
La fede obbediente è la forma che la sua vita assume in ogni istante di fronte all’azione di Dio. Vergine in ascolto, ella vive in piena sintonia con la volontà divina; serba nel suo cuore le parole che le vengono da Dio e componendole come in un mosaico, impara a comprenderle più a fondo (Luca 2,19-51).
Maria è la grande Credente che, piena di fiducia, si mette nelle mani di Dio, abbandonandosi alla sua volontà.
Tale mistero si intensifica fino ad arrivare al pieno coinvolgimento nella missione redentrice di Gesù.
Come ha affermato il Concilio Vaticano II, “La beata Vergine avanzò nella pellegrinazione della fede e serbò fedelmente la sua unione col Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette (Giovanni 19,15) soffrendo profondamente col suo Unigenito e associandosi con animo materno al sacrificio di Lui, amorosamente consenziente all’immolazione della vittima da lei generata; e finalmente, dallo stesso Gesù morente in croce fu data quale madre al discepolo con queste parole: Donna, ecco tuo figlio”.
Dall’Annunciazione fino alla Croce, Maria è colei che accoglie la Parola fattasi carne in lei e giunta fino ad ammutolire nel silenzio della morte. È lei, infine, che riceve nelle sue braccia il corpo donato, ormai esanime, di Colui che davvero ha amato i suoi “sino alla fine” (Giovanni 13,1). Per questo, ogni volta che nella Liturgia Eucaristica ci accostiamo al Corpo e Sangue di Cristo, ci rivolgiamo anche a Lei che, aderendovi pienamente, ha accolto per tutta la Chiesa il sacrificio di Cristo. Giustamente i Padri sinodali hanno affermato che “Maria inaugura la partecipazione della Chiesa al sacrificio del Redentore”. Ella è l’Immacolata che accoglie incondizionatamente il dono di Dio e, in tal modo, viene associata all’opera della salvezza. Maria di Nazareth, icona della Chiesa nascente, è il modello di come ciascuno di noi è chiamato ad accogliere il dono che Gesù fa di se stesso nell’Eucaristia.
LA PREGHIERA DI ADORAZIONE
Quando la piccolezza sfiora l’infinito…
In un mezzogiorno ardente, Gesù, coperto di polvere, attraversava la provincia di Samaria, lungo la gola che si apre tra i monti Ebal e Garizim. Sulla cima di quest’ultimo gli scismatici di Israele, i samaritani, avevano eretto un tempio piuttosto modesto, come replica e sfida al Tempio di Gerusalemme. E lì svolgevano la loro vita religiosa. La rivalità tra giudei e samaritani risaliva ai lontani giorni del ritorno dalla schiavitù di Babilonia.
Risalendo la gola, Gesù entrò nella valle che si estende da Siquem a Naplusa. Al suo ingresso sorgeva Sicar, città adorna di leggende che risalivano al tempo di Giacobbe.
Vicino alla città c’era un pozzo sorgivo, profondo circa 30 metri. Gesù, stanco, sedette presso il pozzo.
E si svolse una strana scena. Con una brocca sulla testa, arrivò dalla città una donna che aveva al suo attivo molta vita e strane storie. Gesù le chiese un po’ d’acqua per alleviare la propria sete. Ella trovò strana la domanda. Rapidamente, tuttavia, i due entrarono in una conversazione di un certo livello e, ad un certo punto, risuonò in quel dialogo singolare, una parola con un gran peso di eternità: adorare.
“…Disse a Gesù la donna: – Signore, vedo che Tu sei un profeta. I nostri padri hanno adorato Dio su questo monte e voi dite che è a Gerusalemme che bisogna adorare. – Gesù le dice: – Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… ma è giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità.” (Gv. 4,19-24)
Adorazione significa riconoscimento della grandezza di Dio e della piccolezza della creatura. Senso della trascendenza divina e della precarietà dell’uomo. Scoperta della gloria del Signore e del proprio niente. Nell’adorazione l’uomo, creatura debole, limitata, sfiora il mistero di Dio. Il nulla entra in contatto col Tutto. L’adorazione proclama, silenziosamente, l’Assoluto di Dio.
Ciò è possibile unicamente in un atteggiamento profondo, autentico, consapevole, di umiltà. Si entra in punta di piedi in uno spazio sacro, nel territorio del mistero.
“…Venite, prostrati adoriamo, in ginocchio davanti al Signore…” (Salmo 95) La lode, la benedizione, l’azione di grazie, portano l’uomo “fuori di sé”, in uno spazio immenso dove risuona la sua parola incontenibile di giubilo per la grandezza di Dio e la generosità dei suoi doni. L’adorazione fa compiere all’uomo un cammino inverso: lo fa rientrare nella profondità del proprio essere, gli tappa la bocca accordandogli esclusivamente una parola interiore. La luce esteriore lascia il posto ad una luce che trafigge l’uomo dal di dentro.
E io scopro la mia vita come attraversata da un raggio della luce di Dio, della Sua grazia, del Suo amore.
Di fronte alla maestà, alla signoria di Dio, al Suo mistero, alla Sua trascendenza, il silenzio risulta più espressivo di ogni parola.
La gioia diventa una realtà che s’impossessa di tutta la persona, la trasfigura. Non c’è più bisogno di proclamarla, di spiegarla.
Basta rifletterla, irradiarla. Nell’adorazione tutto il corpo diventa preghiera. Ed indica riverenza, rispetto, dipendenza, desiderio di lasciarsi avvolgere dal mistero, disponibilità a farsi incendiare dal fuoco che brucia, ma non consuma.
L’oscurità, il silenzio, la solitudine, costituiscono così i segni di un’esperienza irripetibile che si svolge nella zona più segreta dell’essere, là dove si resta abbagliati da una luce, si copre una presenza e si coglie una voce che viene da altrove.
L’adorazione libera l’uomo da tutte le schiavitù, rendendolo totalmente disponibile per l’unico Signore.
“… Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenute nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.
Sì, o Padre, perché così è piaciuto a Te…” (Matteo 11,25-26)
Dio svela i propri segreti non alle persone importanti, ma ai piccoli, alla gente che non conta.
E la preghiera di adorazione diventa il momento privilegiato di queste confidenze divine.
L’umiltà è l’unico recipiente capace di accogliere l’infinito. L’adorazione è un essere preso dalla totalità di Dio.
Mi sottrae alla considerazione dell’io e mi obbliga a puntare lo sguardo unicamente sul Tu di Dio.
Non si tratta di fare dei confronti tra la mia miseria e la grandezza infinita di Dio, tra i miei difetti e le Sue perfezioni.
Nell’adorazione io vengo letteralmente strappato a me stesso e condotto direttamente di fronte all’Altro.
Ciò che conta, ciò che merita attenzione, ciò che mi assorbe totalmente è il Tu di Dio. E io non voglio altro che quel Tu.
L’adorazione mi fa memoria dei comandamento fondamentale: “…Io sono il Signore tuo Dio… Non avrai altro Dio al di fuori di me…” (Deuteronomio 5,6-7)
Verso l’interiorità…
“Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me” (Apocalisse 3,20)
Il Volto di Dio non si manifesterà tanto facilmente.
Quel Volto beato è coperto di densa foschia, è lontano, là oltre il mare del tempo. Noi dobbiamo metterci al timone e navigare tra le ostili ondate della dispersione, delle distrazioni e delle siccità; avanzare nell’alto mare del silenzio, con l’aiuto di mezzi psicologici per raggiungere il “centro”, che polarizzerà e acquieterà tutte le aspirazioni del cuore.
Le riflessioni comunitarie e le orazioni vocali possono renderci presenti al Signore, ma sempre in maniera riflessa e velata. La fonte viva e profonda è lontana.
È possibile appagare la sete nelle acque fresche del torrente, ma l’origine di quelle acque è lassù, presso un ghiacciaio di nevi eterne. L’anima, quanto più sperimenta Dio, tanto più brama la fonte stessa: il ghiacciaio. L’anima cerca e pretende non l’acqua, ma la sorgente stessa. Cerca quella quieta ed ineffabile relazione io-TU. Cerca quella comunicazione profonda da presenza a PRESENZA, da coscienza a COSCIENZA.
E allora Dio comincia a manifestarsi all’anima; ma lo fa come la luce del sole che penetra attraverso gli alberi di una fitta boscaglia. È sole, ma non è il sole; sono particelle di sole che a fatica vincono lo spessore delle fronde.
Signore, mostrami il tuo Volto!
Il volto di Dio è espressione biblica che significa la presenza vivente di Dio; presenza che s’ingrandisce quando la fede e l’amore rendono le relazioni dell’anima con Dio più profonde ed intime. L’anima deve intendere bene che questa presenza è sempre oscura, ma si va facendo sempre più viva. Quando la fede e l’amore s’intensificano, allora i lineamenti di Dio si percepiscono non più chiari, bensì più vivi. Io posso stare, in una oscura notte, con una persona; non ci vediamo, non ci tocchiamo, stiamo in assoluto silenzio guardando le stelle, ma io sento vivamente la sua presenza, so che c’è.
Dio è al di qua e al di là del tempo e dello spazio.
Sta intorno a me e dentro di me e con la sua presenza raggiunge le più lontane e profonde regioni della mia intimità.
Dio è l’anima della mia anima, la vita della mia vita, la realtà totale e totalizzante dentro la quale io sono immerso; con la sua forza vivificante penetra tutto ciò che ho e quello che sono.
Questa realtà ultima dell’uomo la esprime il salmista, con un’incomparabile espressione poetica: “Sono in te tutte le mie sorgenti” (Sal 86). La recita lenta di alcuni Salmi, al principio dell’orazione, può servire per far presente il Signore. “Al centro dell’anima c’è Dio; quando l’anima vi si sarà avvicinata secondo tutta la capacità del suo essere, essa avrà raggiunto l’ultimo e più profondo suo centro in Dio…” (S. Giovanni della Croce)
Nella misura in cui si va vivendo la fede, l’amore e l’interiorità, si distinguono sempre nuove zone di profondità.
Questa grandiosa realtà, Santa Teresa d’Avita la simbolizza con le diverse stanze di un castello, come dimore ogni volta più interne.
Dice Gesù: “Se uno mi ama, osserverà la mia parola e il Padre mio lo amerà e noi verremo a lui e prenderemo dimora presso di lui..” (Gv 14,23). Ad un maggior amore, corrisponderà una dimora più interiore ed intima.
Nella regioni profonde di se stessa, l’anima sperimenterà la presenza attiva e trasformante di Dio.
L’incontro…
La preghiera d’intercessione, come anche quella di lode, sono preghiere “affollate”: infatti preghiamo per gli infermi, per i missionari, per il Santo Padre… Nell’adorazione sparisce tutto il mondo e rimaniamo soli: Lui e io.
Se non riusciamo a rimanere soli, Lui ed io, non c’è incontro vero.
Potrei trovarmi in un’assemblea di preghiera, tra cinquemila persone che pregano e acclamano; o potrei essere solo nella mia stanza, ma se non rimango solo con il mio Dio, non avrò un incontro reale con il Signore.
Ogni incontro è intimità e ogni intimità è recinto chiuso.
Tutto ciò che è decisivo è solitario: le grandi decisioni si prendono da soli, si soffre da soli, si muore da soli, il peso di una responsabilità è il peso di una solitudine.
L’incontro con il Signore si consuma da soli, anche nella preghiera comunitaria. L’incontro è, dunque, la convergenza di due “solitudini”.
Ecco qui la grande sfida per realizzare l’incontro di adorazione: in quale maniera arrivare, attraverso il silenzio, alla mia solitudine e alla “solitudine” di Dio?
Per conseguire tutto ciò, devo far tacere i clamori esterni, i nervosismi, le tensioni e tutta la mia turbolenza interiore, fino a percepire, in pieno silenzio, la presenza di Dio.
Infatti, per adorare Dio in spirito e verità, devo “rivestirlo” di silenzio.
I Profeti provengono dal deserto: dalla distesa immobile della monotonia, emerge il Signore nella sua “solitudine”.
Questo non significa che per adorare dobbiamo cercare le sabbie ardenti di un deserto. Si parla in senso figurato. Abbiamo tuttavia bisogno di alcuni elementi del deserto: il silenzio e la solitudine. Durante la preghiera di adorazione, Dio è “solo”, l’uomo è “solo”: avanziamo verso la convergenza di queste due “solitudini”.
Entra e chiudi la porta…
Dall’alto della montagna, di fronte ad una moltitudine, Gesù aveva proclamato il programma del Regno (Matteo 5).
Ora stava dicendo che per adorare non è necessario un lungo discorso, né un luogo privilegiato e pubblico, basta entrare nella stanza interiore, chiudere bene le porte, incontrarsi con il Padre e restarsene con Lui (Matteo 6,6).
Facile cosa è chiudere le porte di legno e socchiudere le finestre di vetro. Ma nel nostro caso si tratta di qualche cosa di molto più impalpabile.
Quella stanza interiore è un’altra stanza, quelle porte sono altre porte e quell’entrare un altro entrare.
Perché appaia Dio, perché la sua presenza nella fede si faccia densa e consistente, è necessaria un’attenzione aperta, lontana da ogni fonte di distrazione. La maggior parte del cristiani resta fuori dalle esperienze forti di Dio perché non sa fare questo difficile ed indispensabile lavoro prima dell’incontro.
Sono molte le anime che, per mancanza di preparazione sistematica, rimangono ferme in una misera mediocrità.
Vivono alla superficie dell’orazione coloro che non si preparano; e non si preparano perché manca loro un reale interesse.
Noi non possiamo incrociare le braccia, alzare gli occhi e attendere la pioggia. Nell’impiegare i mezzi che abbiamo a disposizione, noi dimostriamo che cerchiamo il volto del Signore in spirito e verità (perché il Padre cerca tali adoratori).
Noi prepariamo il terreno….. Il Signore manderà la pioggia.
Rimanere con il Padre
La solitudine profonda del mio essere è stata illuminata dalla luce della fede, luce viva e calda, e un Abitante è venuto a colmare questa solitudine con la Sua presenza: è il Padre. Che faremo, io e il Padre, nella dimora profonda? Quali parole diremo? Gesù stesso ci esorta: “…Pregando…non sprecate parole!…”
“… Tu, invece, quando preghi, entra nella tua camera, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà… ” (Matteo 6,6).
Rimanere col Padre significa uno scambio di affetti e di attenzioni con Dio. Una proiezione, nell’amore e nella fede, di tutte le mie energie mentali (ciò che io sono profondamente) verso di Lui.
Così tutto il mio essere si fissa, rimane quieto, concentrato in Lui, con Lui. Ma non si tratta solamente di un’uscita mia verso di lui, non è solo una mia apertura. È allo stesso tempo un mio accogliere, perchè esiste anche un’altra uscita, di Lui verso di me.
Se lui esce verso di me e io esco verso di Lui, se Lui accoglie la mia uscita ed io accolgo la sua uscita, l’incontro diventa la convergenza di due uscite e di due accoglienze. In questo modo, si produce un’unione profonda e trasformante. Più profondo è l’incontro, più io comincio a camminare alla presenza del Signore.
Dio opera quindi una profonda conversione del mio cuore e gli altri vedono in me un riflesso della luce di Dio.
Rimanere col Padre equivale a: parlare con Dio. Parlare con Dio è differente dal pensare a Dio. Infatti, quando penso a qualcuno, quello è assente; quando invece parlo con qualcuno presente davanti a me, io allora non penso più a lui, ma stabilisco con lui una relazione. Questa non è necessariamente fatta di parole, ma anche solo di interiorità.
Tutto ciò si riassume nell’espressione: Tu sei con me!
Le tenebre non ti nascondono, le distanze non ti separano. Tu sei con me. Esco sulla via e cammini con me. Mi immergo nel lavoro, Tu rimani al mio fianco. Mentre dormo, vegli il mio sonno.
Non sei un sorvegliante che vigila, sei un Padre che assiste.
A volte mi viene voglia di gridare: “Mi sento solo, come un bambino pieno di paure!” Subito odo la Tua risposta: “Io sono con te, non avere paura!” In Te si alimentano le mie radici.
Mi stringi tra le Tue braccia. Col palmo della Tua mano copri la mia testa. Con la luce del Tuo sguardo mi penetri. I miei sentieri e la mia sorte sono più familiari a Te che a me. Quasi non ci posso credere, ma è vero: ovunque io vada, Tu sei con me.
Adorare…..
Adorare è essere presenti. Essere semplicemente presenti. Dire a Dio: “Eccomi!” Sono presente
E dire questa parola (sono presente) come un’offerta Presenza = prima parola dell’adorazione
Presenza a Dio. Presenza a sé. Presenza al mondo.
È prima di tutto riconoscimento di Dio creatore.
Lo spettacolo della creazione è il luogo privilegiato dell’adorazione.
Adorare è riconoscere l’attività dello Spirito nella creazione
Lo Spirito riempie l’universo e non si sa mai esattamente dove sia, come il vento… E’ dappertutto. E rifiuta di lasciarsi rinchiudere in questo o in quel luogo. Lo Spirito non agisce che nella libertà. Il lavoro che sta più a cuore alla Trinità è quello di liberarci. È per questo che Gesù ci presenta lo Spirito essenzialmente come liberatore: “…Lo Spirito vi renderà liberi….”
Liberi da ogni chiusura. Liberi da ogni ripiegamento sul passato.
Liberi da ogni attaccamento alla preghiera fatta solo di parole, che ci fa dimenticare lo Spirito. Vieni, Santo Spirito !
Scambio di amicizia
“Scambio di amicizia” è un espressione che presuppone uno stato interiore, un movimento reciproco di dare e ricevere.
È sulla parola scambio che bisogna porre l’accento.
Dove c’è “scambio con Dio”, c’è orazione; perché ci sia orazione deve esserci “scambio di amicizia”, e questo in qualsiasi tipo di orazione, dalla recitazione di una preghiera appresa a memoria, fino ai vertici dell’esperienza mistica.
Si tratta di uno scambio affettuoso: amiamo e ci sentiamo amati.
Stare, comunicare, sentirsi reciprocamente presenti: tutte queste parole esprimono approssimativamente quello che è l’essenza dell’orazione.
Potremmo parlare anche di uno scambio di sguardi. Santa Teresa, donna particolarmente sensibile, insiste tenacemente sul lato affettivo più che su quello discorsivo.
Dio è amore: ci ha creati per amore, si è rivelato per amore, lo scopo finale di tutti i Suoi interventi è solo quello di trasformarci nell’amore. In un incontro più o meno profondo, lo scambio di amicizia è una fusione dell’uomo in Dio. Meglio sarebbe invertire il concetto: Dio invade totalmente l’uomo. E quanto più l’uomo concede libertà a Dio nel suo territorio, tante più zone Dio abbraccia, tante più regioni conquista.
Con la sua concretezza femminile, Santa Teresa di Lisieux ci descrive l’incontro con queste parole: “Per me l’orazione è un impulso del cuore, un semplice sguardo diretto al cielo, un grido di gratitudine e di amore, tanto in mezzo alla tribolazione come in mezzo all’allegria. Infine, è qualcosa di grande, qualcosa di soprannaturale che mi dilata l’anima e mi unisce con Gesù”.
La parola più significativa per chiarire la sensazione dell’incontro è: intimità. L’intimità è l’incontro e al tempo stesso il risultato dell’incontro tra due interiorità. L’incontro presuppone un “clima di famiglia”.
Le Scritture spiegano questo clima con espressioni come: “… Venne ad abitare in mezzo a noi” (Giovanni 1,14); “…Prenderemo dimora presso di lui…” (Gv. 14,23), le quali evocano questa idea nelle varie sfumature di calore, gioia, fiducia, tenerezza, come a farci sentire partecipi di un focolare felice.
Chi sei Tu e chi sono io?
Abbiamo detto che l’incontro è uno scambio di amicizia con Dio.
Non servono strumenti o intermediari, come la parola e il dialogo, per unirsi a Dio; è un immergersi nelle acque profonde di Dio.
Non c’è rappresentazione di Dio, non è necessario rappresentarlo, perché Dio è qui, è con me. È una realtà che mi invade totalmente; è una Presenza affettuosa, familiare, amatissima, concreta.
San Giovanni della Croce ci descrive questo incontro profondo come una notte stellata, in cui la fede sorprende il figlio e lo conduce nelle braccia del Padre. Il figlio si installa nel cuore del Figlio e dal quell’osservatorio contempla il Padre.
Il Padre è un panorama infinito, senza muri né porte, illuminato notte e giorno dalla tenerezza. È un bosco infinito di braccia calde, invitanti all’abbraccio; è assente l’amarezza, vibra la dolcezza.Subito tutto si paralizza.
Non c’è nel mondo movimento così quieto e quiete così dinamica. Tutto è Amore. Tutto è Presenza. È un amore coinvolgente. È il Padre.
LA PREGHIERA DI CONTEMPLAZIONE
Guardi e sei guardato, ami e sei amato. La Presenza pura, nel silenzio puro e nella fede pura, consumerà un’alleanza eterna. È il nulla. E il Tutto. Tu sei il recipiente. Dio è il contenuto. Lasciati riempire. Tu sei la spiaggia. Lui è il mare. Lasciati inondare. Tu sei il campo. La Presenza è il sole. Lasciati vivificare. Resta così per lungo tempo…. Poi torna alla vita pieno di Dio. (Padre I. Larranaga)
Gli occhi del gufo….
L’adorazione focalizza lo sguardo sull’Assoluto e quindi sui valori che non tradiscono e sui quali si può costruire un’esistenza. La preghiera di adorazione porta alla contemplazione, a cui è strettamente legata.
Contemplare significa “vedere oltre le apparenze”, penetrare sotto la crosta, scoprire la realtà più profonda delle cose e degli avvenimenti. II contemplativo è uno che non si accontenta di guardare le cose in maniera superficiale. Lui intuisce
che il reale, così come appare, nasconda un’altra realtà misteriosa, che è la più vera ed autentica.
Collocandosi nella luce di Dio, lui si ostina a “leggere” in maniera diversa le cose, gli avvenimenti, gli uomini.
Contemplazione, quindi, è essenzialmente un fatto di sguardo. Uno sguardo reso penetrante dalla fede e dall’amore.
Non per nulla i monaci antichi avevano una predilezione particolare per gufi e civette. In questi uccelli, i contemplativi scorgono il simbolo della loro vita. Soprattutto a motivo degli occhi, enormi, capaci di forare il muro della notte. Questi animali non si limitano ad avere degli occhi grandi. II gufo riesce a vedere con una luce cento volte inferiore a quella necessaria per l’uomo.
Per scrutare le tenebre bisogna avere occhi smisurati, gli occhi di Dio stesso. Allora la notte diventa luce! Così è dei contemplativi: si ostinano a scrutare la notte di Dio. Sono là come sentinelle in attesa, pazientemente appollaiati sulle loro fragili zampe, fino a che si levi il Sole.
I nostri occhi, attratti dalle cose immediate, appariscenti, scintillanti, che s’impongono violentemente all’attenzione, si chiudono a poco a poco, si riducono alle dimensioni degli oggetti che stanno ad un palmo di distanza. Gli occhi dei contemplativi, come quelli dei gufi, sfidano la notte. Pretendono di guardare attraverso la notte. Vogliono cogliere le realtà avvolte nel mistero, le cose che non s’impongono. Per questo s’ingrandiscono, fino a diventare immensi, capaci di afferrare la Bellezza, la Verità al di là delle cose.
Quando preghi, non avere paura di lasciarti aprire gli occhi da Dio. In tal modo la notte, per quanto oscura, può diventare la tua fonte d’illuminazione. La contemplazione costituisce una forma privilegiata di conoscenza. Non si tratta, però di una conoscenza di tipo intellettuale. Il contemplativo “vede meglio”, non attraverso ragionamenti, ma mediante una conoscenza intuitiva resa possibile dalla familiarità con Dio, dalla fede e dall’amore, e mediante un cuore puro, incendiato dalla luce che viene dall’Alto.
Più che conoscere, il contemplativo sa riconoscere, spingendo il proprio sguardo oltre l’apparenza. Tipico è l’atteggiamento di Giovanni nella scena conclusiva sul lago: “…Quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: – È il Signore!- ” (Giovanni 21,7).
Giovanni, da autentico contemplativo, da innamorato, scopre l’identità di quello strano personaggio che aveva assicurato la pesca miracolosa. Avverte una presenza, riesce a dare un volto, un nome a Colui che, per i suoi compagni e per Pietro, rimaneva uno sconosciuto, uno come tanti altri. II contemplativo, come Giovanni, indirizza i battiti del proprio cuore in direzione di una Persona.
Lui legge, ascolta con gli occhi e vede bene col cuore.
II contemplativo, attraverso la familiarità con la “luce inaccessibile” (Timoteo 6,16), acquista la capacità di vedere, di accedere alla luce. Non solo come anticipo dell’eternità, ma come scoperta delle realtà presenti. II contemplativo
desidera vedere soltanto Dio, per essere poi in grado di vedere il fratello, mettere a fuoco il suo volto.
Se uno si ritira a pregare per non vedere nessuno, per non trovarsi tra i piedi le solite persone insopportabili, i soliti problemi sgradevoli, le solite cose banali di tutti i giorni, rischia di diventare cieco. Ci si ritira a pregare per vedere di più, per vedere meglio. Soprattutto per posare gli occhi sulle cose e le persone che preferiremmo non vedere e sulle situazioni che vorremmo non affrontare.
II contemplativo è uno che si è reso conto che per vedere il fratello che gli passa accanto deve, prima, cercare il Dio invisibile.
Per raggiungere il prossimo, lui sale a Dio. Di lì è sicuro di arrivare al fratello. E se non ci arriva, è perché non si è avvicinato abbastanza a Dio. Da Dio al fratello. Il contemplativo….
La contemplazione è una dimensione essenziale della preghiera.
E, anche se la gente comune la ritiene al di fuori della propria portata, riservandone volentieri la specializzazione ad alcuni individui privilegiati, che dimorano nella quiete dei chiostri, essa deve entrare a far parte dell’esperienza ordinaria. ….. ha lo sguardo incendiato dalla luce
II contemplativo ottiene in dono uno sguardo “diverso” sulle cose, sulle persone, sugli avvenimenti della storia. Uno sguardo penetrante, senza essere indagatore. Sicuro, ma privo di durezza. Dolce, disarmato, che non vuol dire ingenuo. Uno sguardo intelligente, ossia capace di esplorare le profondità senza divagare in superficie. L’intelligenza di un cuore bruciato dalla passione dell’invisibile.
…ha capacità di sintesi
Lui vede meglio perché riesce a “prendere le distanze” dalla realtà, a collocarsi nella prospettiva giusta. Ha uno sguardo d’insieme, globale, che gli consente di osservare le cose nelle loro vere proporzioni. Non drammatizza una difficoltà, un’incomprensione, un rifiuto. Riesce ad interpretare anche le realtà meno piacevoli, in un contesto di grazia. Non sprofonda mai nello scoraggiamento.
Ed è sempre pronto a riprendere il cammino. …..è magnanimo
Non è intollerante, fanatico, aggressivo. Non ha pregiudizi, rispetta le vocazioni, i punti di vista diversi e non ha la pretesa di imporre come assoluta la propria esperienza. Si mantiene al di fuori delle mischie, dei personalismi, delle vanità e degli arrivismi. È sempre pronto al perdono, alla comprensione. Capace di cogliere l’essenziale, non perde tempo in ciò che ha poca importanza.
….è longanime
Deciso, tiene ben presenti la meta e gli obiettivi, ma non si lascia dominare dall’impazienza. Sa aspettare. Sceglie i tempi lunghi, convinto che ogni vera maturazione è sempre piuttosto lenta. È consapevole dei fatto che non si può arrivare al termine del cammino scavalcando le tappe intermedie. Per questo sopporta serenamente i contrasti, le opposizioni, perfino le persecuzioni.
È sicuro che Dio, anche quando tace, ha sempre l’ultima parola. Perciò vive nella pace, pur nell’infuriare della tempesta.
…..è silenzioso
II contemplativo si riconosce non dai discorsi, ma dalla calma, dalla serenità, dalla pace, dal silenzio luminoso che emana dalla sua persona. Lui reca sul volto le stimmate della luce.
Se lo incontri, ti ritrovi arricchito, illuminato dentro, pacificato. ….è umano
Un’esperienza del divino che non renda più umani è alquanto dubbia. L’umanità rappresenta uno dei segni più credibili della vera contemplazione.
Così il contemplativo si rivela sensibile, delicato, attento alle necessità del prossimo, capace di compatire le miserie e le debolezze altrui. Non si vergogna di vere un cuore. Manifesta tenerezza; ama la solitudine, ma è anche l’uomo dell’incontro e dell’amicizia. Gode per le piccole cose e partecipa alle gioie degli altri. È attraverso la sua straordinaria umanità che il contemplativo ti fa sospettare la presenza di Dio in mezzo a noi.
….ha il senso dell’umorismo
II contemplativo “è leggero”, perché non appesantito dal proprio io, dalle preoccupazioni di se stesso, del successo, della vanità, della carriera. Non si prende troppo sul serio. Sa ridere di sé. Si adatta alle circostanze con elasticità. Per lui, il lasciarsi mettere in discussione dalle circostanze della vita, diventa una forma di sottomissione alla volontà di Dio.
II contemplativo si costruisce una nicchia nel cuore, ridimensionando gli altri e se stesso, abbattendo impalcature ingombranti per coltivare, nel terreno dell’ umiltà, il fiore prezioso del sorriso.
Allargare gli orizzonti….
Contemplare deriva dal latino templum (tempio). Nella prospettiva biblica, il tempio è il luogo dove abita il Signore.
II contemplativo, però, allarga smisuratamente l’area del tempio, perché scopre e vede che Dio è in azione, nel mondo, nelle vicende della storia, nel cuore dell’uomo. II tempio è il mondo, luogo della “manifestazione nascosta” del Signore. Perciò il contemplativo trova nel mondo il tempio, ossia il luogo della propria esperienza di Dio.
La contemplazione cristiana ha due “luoghi privilegiati”: – Gesù contemplato nella preghiera
– Gesù incontrato nel prossimo .
La contemplazione è anche inseparabile dalla fede e dall’ascolto assiduo della Parola di Dio. La contemplazione non è un lusso spirituale, un misticismo negato alle possibilità della gente comune. È, invece, l’unica maniera di vivere nella verità. La preghiera contemplativa non rappresenta una forma di evasione e un
rifugio che difende dalla dura realtà. AI contrario, più che rappresentare un altro mondo, irreale, è la possibilità di vedere questo mondo alla luce di Dio. Contemplare non significa “passare al largo”, scansare appuntamenti scomodi con gli impegni terrestri.
Ma tra-passare, ossia passare attraverso o passare dentro.
Contemplare non si riduce a quiete, serenità, silenzio, estraneità, assenza, impassibilità. La contemplazione è un’esperienza del vivere, inteso in senso globale. La preghiera contemplativa è un miracolosa operazione di allargamento di spazi. Non si può improvvisare. Va preparata.
Gli autori classici e moderni della spiritualità sono concordi nell’indicarne alcune condizioni fondamentali:
– purificazione del cuore – umiltà
– silenzio -abbandono.
La preghiera contemplativa dà un senso, un orientamento all’azione. La inserisce nel solco della volontà di Dio.
Arriva più lontano sulla strada della contemplazione non chi si isola, ma chi è capace di fare unità.
Dalla preghiera contemplativa scaturisce l’attività apostolica, missionaria, del credente, del testimone.
La missione della Chiesa e il suo servizio non possono che partire dalla contemplazione e passare attraverso la contemplazione.
La contemplazione nasce dall’amore, è esperienza d’amore e sfocia necessariamente nell’amore.
Se nella preghiera contemplativa un cristiano non scopre l’amore, ciò significa che invece di raggiungere Dio ha contemplato “una caricatura di Dio”, o magari la propria immagine.
La contemplazione non è accartocciamento su se stessi, ma comunione.
Avendo scoperto la gente comune, il contemplativo entra in comunione con le altre persone e con l’universo intero.
Un’immagine della contemplazione cristiana può essere data dalla particolare esperienza di Dio che gli ebrei, nel faticoso cammino attraverso il deserto, hanno compiuto grazie alla “nube” che li accompagnava.
“…Ad ogni tappa, quando la nube s’innalzava e lasciava la Dimora, gli Israeliti levavano l’accampamento …. La nube del Signore durante il giorno rimaneva sulla Dimora e durante la notte vi era in essa un fuoco, visibile a tutta la casa di Israele, per tutto il tempo del loro viaggio…” (Esodo 40:36-38)
Presenza velata. La nube manifestava la divinità e, al tempo stesso, la nascondeva. Resta l’immagine di un cammino guidato da una Presenza, discreta e necessaria.
Non è il “Dio che ti vede”, ma il “Dio che ti accompagna”.
La contemplazione è anche l’immagine dei roveto ardente (Es. 3:2-3). Nel deserto, il cespuglio era ardente, ma non si consumava. Dio, frequentemente, ama nascondersi.
Di solito si parla della contemplazione in termini di montagna, di vetta, ma la contemplazione ti colloca spesso anche sull’orlo sottile di un abisso che si è scavato dentro di te.
La contemplazione cristiana si realizza nella fede. Non è la visione diretta, “faccia a faccia”.
I nostri occhi non sono in grado di sostenere la luce abbagliante del sole. Dobbiamo socchiudere gli occhi per sopportare il sole.
È attraverso l’oscurità che intravediamo la luce.
Accordata sul ritmo di Dio, la preghiera di contemplazione ci proietta in un tempo “diverso”, che è anche il tempo dell’imprevisto, del non-programmabile, della sorpresa, dell’irripetibile, dell’avvicinarsi dei Suoi passi…..
Il contemplativo entra dentro una strada segreta. Si spinge all’interno. Contemplare, voce del verbo sospettare. Sospettare che il più è nascosto. Che il meglio non è ciò che appare in superficie. Che il mistero è la verità delle cose. E se non arrivi a sfiorare il mistero, rimani un estraneo rispetto alla realtà. Sospettare che il grigio del quotidiano è intriso, se ne trapassi la crosta, della luce pasquale.
II vero realista è il contemplativo perché riesce a vedere la realtà non con le lenti deformanti dell’inevitabile (che comporta atteggiamenti di rassegnazione), ma attraverso la luce dell’ attesa di qualcos’ altro (che determina un impegno concreto verso il loro vero traguardo).
L’uomo razionale vede le cose così come gli appaiono.
II contemplativo sa cogliere il battito segreto del mondo. Là, dove l’uomo razionale vede e descrive soltanto gli oggetti, il contemplativo coglie dei segni. Egli non è armato di certezze e convinzioni.
È invece una persona vulnerabile, ferita continuamente dalla Luce. II contemplativo non elabora delle teorie, non produce solo ragionamenti, non ha fretta di arrivare a delle conclusioni.
Preferisce, ogni giorno, spalancare lo sguardo alla luce.
Non si sente chiamato a difendere la verità, ma ad irradiarla.
L’uomo razionale si sente custode della verità, l’uomo contemplativo si limita ad indirizzare i battiti del suo cuore in direzione di una Persona. La contemplazione non solo ci impedisce di fabbricarci un’immagine distorta di Dio e del mondo, ma evita che ci costruiamo un’immagine falsa di noi stessi.
La bellezza del deserto sta nel fatto che nasconde un pozzo da qualche parte …. La preghiera contemplativa ti fa attraversare il deserto con il desiderio di scoprire il pozzo destinato alla tua sete.
Ti fa perlustrare un campo, sospettando il tesoro che è sepolto in qualche angolo. Ti fa frequentare un mercato stracolmo di cianfrusaglie, pronto ad individuare la perla di inestimabile valore.
Ti fa camminate lungo una strada polverosa qualsiasi, lasciandoti raggiungere, al momento della delusione e della stanchezza, quando già si allungano le ombre paurose della sera, da un Passante che ti scalda il cuore con le Sue Parole insolite e si fa riconoscere nel gesto di spartire il pane.
Ti permette di forare la coltre di nebbia in cui rischi di smarrire la direzione del cammino, per lasciar filtrare un raggio di luce.
Un modello di preghiera contemplativa è senz’altro quello di Maria nel Magnificat (Gesù è vissuto per trent’anni, a Nazaret, accanto a una madre contemplativa). Colei che “…tutte le generazioni chiameranno beata…” ha scoperto, “sospettato”, nel grigiore di un’ esistenza dominata dai ricchi,dai potenti, dai sapienti, la presenza di un germe di novità, prossimo ad esplodere, che avrebbe portato ad un capovolgimento della storia.
II verbo “sospettare”, tipico della contemplazione, va applicato nel suo significato positivo, anche nei confronti del prossimo.
Bisogna imparare a “sospettare” in senso luminoso.
Sospettare che un fratello, sotto la crosta dei difetti, custodisce una zona intatta che si apre solo davanti ad un atteggiamento diverso. Sospettare il meglio che c’è in ogni uomo. Sospettare il vero, il bello, il buono, il pulito che rimane nascosto. Sospettare un’attesa, un tormento segreto, una ferita non del tutto rimarginata. II contemplativo non si limita ad esplorare il territorio dello spirito, ma si avventura, con discrezione e rispetto, anche nel mistero dell’uomo.
La preghiera contemplativa porta la persona a smantellare le proprie difese. Oltre che il verbo “sospettare”, il contemplativo conosce bene anche il verbo ‘rischiare’.
Rischia l’imprevedibile, cammina a piedi scalzi, senza bastone, senza bisaccia. Respinge i favori della gente che conta, rifiuta le protezioni dell’avere, del sapere, del potere. In una società che tende a soffocare lo slancio verso l’infinito, che cerca di imprigionare in tutto ciò che è a portata di mano, che spinge a desiderare tutto e subito, il contemplativo si fa pellegrino dell’ Assoluto.
Scommette sull’invisibile, rischia l’esplorazione di ciò che sta “al di là delle cose”, coltiva la nostalgia del futuro.
Appuntamento al pozzo di Sichem
Un pozzo diventa il luogo dell’incontro con Dio. La sete degli uomini è appagata al di là di ogni speranza. Lasciamo scaturire in noi il desiderio di dissetarci. Perché ancora oggi il Signore ci dice:” … lo ti darò acqua viva..” Fermiamoci al pozzo….
Leggiamo attentamente Giovanni 4,1-42 Lei veniva per attingere acqua. Lui aveva sete. Si era fermato e si era seduto sul muretto di un pozzo. Veniva da lontano e percorreva il paese annunciando che i tempi erano compiuti. Lei veniva ad attingere acqua, l’acqua di tutti i giorni, l’acqua necessaria, indispensabile. Veniva ad attingere la vita.
“…Dammi di quest’acqua che io non abbia più sete…”
Veniva ad attingere l’acqua che fa rinverdire il deserto. Sperava di estinguere la propria sete e portava in sé il desiderio che dà il gusto di vivere.
“…So che il Messia viene e ci farà conoscere ogni cosa…” Sete…… Desiderio… Per noi, gente abituata alle piogge, è difficile sentirci attanagliati alle viscere quando si parla di acqua, di sete, di pozzi, di deserto… Noi non conosciamo la sete. L’uomo di oggi muore per non avere più sete. I suoi desideri sono troppo in fretta appagati, la sua esistenza passa senza uno scopo, la sua immaginazione è sterile, le sue aspirazioni minime. Noi non conosciamo la sete. L’uomo di oggi la soddisfa con acque stagnanti.
“…Se tu sapessi il dono di Dio! Egli ti avrebbe dato acqua viva….” Se tu sapessi…. Lasciati scavare dalla sete… Scoprirai una speranza profonda. Ascolta il desiderio che scaturisce dentro di te. Non aspiri forse ad un mondo in cui gli uomini, un giorno, si risveglieranno e capiranno finalmente che sono fatti per vivere insieme? In cui la giustizia scorrerà come l’acqua e la rettitudine come un fiume impetuoso? Non sogni forse di poter respingere lontano le tentazioni della disperazione, di gettare una luce nuova sulle tenebre del pessimismo, di essere capace di affrettare il giorno in cui la pace regnerà sulla terra e la buona volontà tra gli uomini? Scava il tuo desiderio. La vita è nascosta in profondità. Non vivere in superficie, perché i tuoi sogni non saranno mai abbastanza grandi, abbastanza belli. Dio ha sognato prima di te.
Ha sognato per sei giorni… Prima di realizzare, dalla polvere del suolo, l’uomo suo capolavoro e la donna, opera del suo cuore.
Abbandonati al desiderio.
“…Se tu mi avessi chiesto di quest’acqua, lo ti avrei dato acqua viva…” Dio sogna per te. Ti spalanca l’avvenire.
Dio, il tuo Dio, ha i desideri pazzi della giovinezza: immagina di cambiare il mondo e il mondo è trasformato. Pensa che tutto sia possibile e l’immaginazione diventa realtà.
Lasciati afferrare dalla speranza. Lasciati sedurre da un avvenire possibile… Un avvenire che il passato non può impedire.
Lasciati sommergere dalla sete, perché desiderare è già nascere ad altro. Lasciati aprire a ciò che Dio vuole fare per te, perché Dio, il tuo Dio, non è prigioniero del passato. Dio ha i desideri della giovinezza che inventa l’amore; per Lui tutto può ancora essere desiderato, perchè niente può contenere l’acqua zampillante. Dio, il tuo Dio, è un Dio di eterna giovinezza, per Lui ogni mattino ha lo splendore del primo mattino del mondo. Là dove Dio passa, la vita scaturisce. E il desiderio può dilagare a perdita d’occhio…. La sabbia si fa prateria, la roccia si fa acqua limpida. Lasciamoci sommergere dalla sete, perchè Dio si incontra sul muretto di un pozzo.
“…Se tu mi avessi domandato di quest’acqua, lo ti avrei dato acqua viva ….” Era una donna straniera, rigettata dalla legge, una samaritana…. veniva ad attingere acqua alle porte della città. Era un uomo speciale …. dal suo fianco avrebbe presto diffuso la vita, alle porte della città. Lei aspettava il giorno di Dio. Lui aveva sete. Fu conquistata dalle sue parole….
Le rivelò che anche Dio aveva sete…
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