Vita pastorale – Una rilettura del sesto comandamento
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“Se una persona è gay e cerca il Signore e ha buona volontà, chi sono io per giudicaria? IlCatechismo della Chiesa cattolica dice che queste persone non devono essere discriminate ma accolte. Il problema non è avere queste tendenze, sono fratelli, il problema è fare lobby… Questo èil problema più grave”. Così, secondo gli organi di stampa, Papa Francesco avrebbe risposto alla domanda di un giornalista nel viaggio di ritorno da Rio de Janeiro.
L’intervista apparsa su La Civiltà Cattolica conferma questo suo atteggiamento: «Se una persona omosessuale è di buona volontà ed è in cerca di Dio, io non sono nessuno per giudicarla. Dicendo questo, io ho detto ciò che dice il Catechismo. Una volta una persona mi chiese se approvavo l’omosessualità. Io allora le risposi: “Secondo te Dio, quando guarda a una persona omosessuale, ne approva l’esistenza con affetto o la respinge condannandola?”. Nella vita Dio accompagna le persone, e noi dobbiamo accompagnarle a partire dalla loro condizione. Bisogna accompagnare con misericordia».
Abbiamo preso in esame la pedofilia, il peccato di pedofilia, passiamo ora alla spinosa questione dell’omosessualità. Non di rado vengono stabiliti stretti legami tra le due cose, ma non è su questa pista, per altro offensiva in partenza, che vogliamo metterci, quanto sul problema più generale: l’essere attratti da persone del proprio stesso sesso, l’essere caratterizzati da un orientamento sessuale che coglie soltanto questi/e come propri “naturali” partner. La questione è molto complessa. Investe infatti il tema dell’identità di genere e il collocarla o meno sul piano della sola costruzione sociale. Cose queste su cui più volte si è riflettuto sulla rivista.
Senza nessuna pretesa esaustiva provo a richiamare che dell’omosessualità, nella storia, non è stata data una lettura univoca, ma – ci piaccia o no – ogni cultura si è regolata diversamente. La storia registra posizioni assolute di condanna, con legislazioni severissime, e, d’altra parte,
posizioni permissive, soprattutto al maschile, senza remore di sorta. Vario anche l’atteggiamento religioso. Tuttavia ebraismo, cristianesimo e isiam da sempre si sono schierati su posizioni contrarie. Nei momenti storici di maggiore collusione tra potere politico e potere religioso, l’omosessualità è stata considerata un crimine passibile di morte.
Dalla condanna all’approccio
Dalle Scritture ebraico-cristiane -Antico e Nuovo Testamento – emerge una condanna senza appello. Sulla stessa linea i Padri della Chiesa. Non mancano, tuttavia, riletture attuali delle Scritture, come dei Padri, volte a dimostrare l’infondatezza degli approcci. Di fatto, una crepa nell’impianto socio-religioso si è aperta a partire dal secolo XIX. Diciamo, approssimativamente, che la stagione della rivendicazione dei diritti è andata enucleandone sempre di nuovi, sulla linea delle libertà personali e della propria autodeterminazione. Una cosa è certa: dietro la condanna dell’omosessualità c’è il rifiuto di ogni uso della sessualità non diretto alla procreazione. La sessualità, l’esercizio della sessualità è legittimo solo nell’ambito di una struttura
sociale, la famiglia, risultante di due soggetti umani di sesso diverso, giuridicamente uniti al fine di procreare, perpetuando la comunità umana.
Ovviamente, stando così le cose, l’omosessualità è apparsa un attentato alla stabilità sociale. La coppia omosessuale ostenterebbe una simulazione della famiglia e pretenderebbe d’esservi equiparata. Chi sono io per giudicare i gay? Se così si è espresso Papa Francesco, figurarsi la sottoscritta. E tuttavia occorre farlo il discorso, non certo per chiudere le porte e rinnovare condanne, ma per chiedersi cosa c’è dietro al fenomeno così come lo viviamo.
La nostra cultura a ragione o a torto nella sua valorizzazione ossessiva della sessualità e dei presunti diritti a essa inerenti ha finito, io credo, con il confondere il rispetto dovuto all’orientamento con la giustificazione, a partire dall’orientamento, di famiglie fittizie. Una cosa, infatti, è il rispetto verso i singoli e le coppie che vivono situazioni affettive stabili, benché diverse dai cliché istituzionali, una cosa è l’estendere i medesimi diritti sino al matrimonio (sacramento) e alla procreazione (assistita o surrogata), a persone dello stesso sesso. In altre parole, dinanzi al rapporto tra omosessuali è lungimirante non precipitarsi a giudicare, tanta e tale è la gamma delle situazioni personali. Bisogna mettere in atto un’attitudine di sincero rispetto e offrire comprensione e accoglienza vera. Altro, invece, è reagire alla pressione esercitata, facendo lobby, per imporre come diritto umano qualcosa che è oggettiva-mente difficile leggere come tale. Entriamo così nella questione spinosa delle lobby, dei gruppi di pressione socioeconomica e culturale. Non credo che l’orientamento sessuale sia indifferente. Accetto – non posso negare l’evidenza – che si diano forme diverse di orientamento omosessuale. Ma i nodi non possono essere sciolti con la logica dei diritti di una minoranza; né la minoranza può imporre il suo punto di vista alla collettività.
Sia chiaro, a me personalmente è capitato di dovermi fermare davanti a un rapporto nobile, vero, tra persone omosessuali. Ho dovuto, confesso mio malgrado, scansare ogni parvenza di pregiudizio. Ma questa rispettosa empatia non può tradursi -né questo è l’unico caso – in forme legislative di tipo matrimoniale. Le parole hanno pure una loro ragion d’essere. Questo – anche se ci sono indicazioni ecclesiali severe – non vieta una regolamentazione civile dei rapporti delle coppie omosessuali, in vita e in morte. Non supponiamola né chiamiamola però “matrimonio”: manca la materia prima.
Domande vere e ricorrenti
Una domanda tuttavia vorrei farmi, senza con ciò incorrere nell’accusa di omofobia. Abbiamo scoperto adesso il fenomeno dell’omosessualità? Esso ha davvero i numeri che gli vengono attribuiti? Essere gay o lesbiche nasce davvero da un orientamento sessuale o non è piuttosto un atteggiamento posticcio, un essere alla page, nel perverso gioco della presunta “indifferenza” di genere? E in particolare, se è vero storicamente che i rapporti omosessuali hanno un incremento nei luoghi selettivi a partire dal sesso (caserme, carceri, collegi, seminari), questo dato, come Chiesa, non ha niente da dirci?
Qualche anno fa a Gerusalemme un’amica di pellegrinaggio ebbe la pessima idea di sorreggere un ebreo osservante che salivate scale. Ne ebbe insulti, a lei incomprensibili ma evidenti: ne aveva inficiato la purità come donna e, visibilmente, come non ebrea. Prendo le mosse da lontano per chiedermi se l’omofilia, ben celata dietro atteggiamenti ufficiali omofobi di tanti uomini di Chiesa, non nasca tanto da un orientamento sessuale, quanto piuttosto da un dispositivo intellettuale che guarda con disprezzo le donne e le esclude dalla propria vita e soprattutto dalla Chiesa.
Ricordo con orrore la tranquillità con cui, a proposito di un ecclesiastico pescato a “fornicare” con prostituti dello stesso sesso, mi si fece notare – più di trent’anni fa – che, però, non era stato sorpreso con una donna. Segno evidente che nella scala della depravazione quello era il livello infimo, intollerabile. Non mi pare che le cose siano mutate. L’emofilia ecclesiastica sceglie pizzi e merletti; sceglie l’intransigenza della condanna; sceglie la professione pubblica di misoginia.
Ma tutto ciò è intollerabile nella misura in cui diventa lobby, cordata che all’infinito genera una sequela affine, un atteggiamento univoco in quelli che detengono il potere o che vi aspirano. Basta con il sacro, con i suoi teoremi deliranti; basta con una comprensione di sé smisurata e infondata; basta con la presunzione d’essere non uomini di Dio, ma Dio stesso, oltre il bene e il male. Basta con un’educazione ses-suofoba; basta con la misoginia quale scudo unico e valevole, come strenua difesa dei valori del celibato.
Sono questi i luoghi di coltura dell’emofilia ecclesiastica. Il che ferisce il corpo della Chiesa e soprattutto impedisce il riconoscimento in pienezza dei battezzati come tali, senza discriminazioni di sesso, razza, cultura. Nessuna riforma è possibile se non si accetta la sfida della diversità, la stima della diversità. Non ci si può condannare al ghetto, al gruppo chiuso. La Chiesa è di tutti.
E, guardando alla società, mi chiedo anche se nel dichiararsi lesbiche di tante donne non ci sia il bisogno di trovare un antidoto alla violenza maschile e se nel professarsi gay di tanti maschi non ci sia la paura e lo sconcerto verso un modello di donna, davanti a cui si teme d’essere inadeguati. Mi chiedo insomma se alle spalle del fenomeno nella sua esplosione culturale non ci siano carenze forti a livello formativo; se dietro la cosiddetta scelta del proprio orientamento sessuale non ci sia la difficoltà di accettare o elaborare nuovi modelli di mascolinità e femminilità.
Ma i problemi posti non toccano ovviamente quelli che davvero e senza alibi, e pagando di persona, si dichiarano omosessuali: sono nostri/e fratelli/sorelle, nostri/e compagni/e di cammino, talora anche di fede. Bisogna accettarli/e come tali; aiutarli/e e accompagnarli/e, senza fobie, verso la migliore comprensione di sé e della loro vocazione umana e cristiana.
Cettìna Militello
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